Max Leonida, regista e sceneggiatore, dalle origini siciliane al successo hollywoodiano.
Ciao Max, benvenuto e grazie per la tua disponibilità. Se volessi presentarti ai nostri lettori cosa racconteresti di te quale artista della settima arte? Qual è stato il tuo percorso artistico che ti ha condotto dove sei ora?
Ciao Andrea e grazie a te per avermi qui oggi: lo sai che ho una grande e sincera stima di te sia come amico che come redattore e scrittore! Infatti so che la tua bellissima raccolta di romanzi “Mastr’Antria e altri racconti” sta ottenendo grandi consensi e riconoscimenti: bravo! Prima di tutto sono felicissimo che tu abbia menzionato le mie origini sicule: infatti il mio bisnonno era di Sciacca! Mio padre poi è un toscanaccio e mia madre romana… quindi se sommiamo il tutto con la mia nascita a Milano, diciamo che sono un vero italiano “misto”! Riguardo a me… beh, in genere sono sempre estremamente imbarazzato quando si tratta di parlare del sottoscritto, dato che non credo la mia inutile e futile persona possa rappresentare un argomento così interessante di conversazione e di approfondimento… inoltre la nostra cosiddetta (e famigerata) “personalità” è ciò che di più falso e posticcio si possa proporre a chi incontriamo o a chi ci ascolta. Di fatto quello che noi veramente siamo (la nostra essenza) e quello che invece surrettiziamente facciamo vedere al mondo di essere (la nostra “persona” o personalità) sono due mondi che a volte manco si sfiorano… Mentiamo costantemente a noi stessi: è una bugia infinita. Del resto questo vizio cardinale, questo peccato mortale non lo compiamo volontariamente: è che sin da piccoli ci hanno abituato ossessivamente a vivere secondo canoni, modi ed abitudini “occidentali” e quindi basati fondamentalmente sull’edonismo, sull’immagine, sul pubblico decoro e sulla fragile apparenza. Per quello che riguarda il mio per-corso (artistico, intellettuale, spirituale… definiamolo insomma come più ci piace…) ho sempre cercato di dire emozionando o – meglio – di emozionare dicendo. Di fatto sono solo un cantastorie da baraccone, un antico fabulatore, un narratore da strada, un mangiafuoco buono (speriamo) e se fossi nato in altre epoche forse mi sarei trovato a gettare ombre del mio corpo su pareti rocciose di fronte a trogloditi esterrefatti, a raccontare eventi immaginifici seduto con altri membri della mia tribù intorno ad un fuoco schioppettante o ad evocare spiriti e magie druidiche per anime assetate di emozioni e di conoscenza… Cronologicamente (e per dovere di aderenza ai fatti concreti) forse devo iniziare col dire che – mentre studiavo Lettere Moderne alla Cattolica di Milano – sono contemporaneamente stato ammesso all’Accademia de’ Filodrammatici (corso del 1991) ed è lì che ho sciaguratamente realizzato (senza pienamente capire) qual era la mia malsana passione per il teatro e per la macchina espressiva ed attoriale in generale. Certo… avrei potuto smettere, ero ancora giovane… maledizione!!! Ma sì, dai… probabilmente ero ancora in tempo e avrei potuto saggiamente scegliere un mestiere borghesemente “rispettabile”… del resto ero molto bravo coi personal computer di allora (Commodore, Amiga) e programmavo formidabili routine software in Basic, Pascal, Assembler… mio padre mi vedeva già come un piccolo insopportabile Bill Gates alla milanese a bordo di elicotteri privati e limousines con autista… ed invece no! Coglione come pochi ho seguito la mia sconcia tendenza di antico narratore… che spregio, che imperdonabile vergona! Ed eccomi quindi nel 1992 (a 22 anni) formare la mia prima compagnia teatrale (La Compagnia dei 13) mentre mettevo piede in scena per la prima volta con “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello… ed in seguito, nel 1995, eccomi a creare la Compagnia Stabile Teatro del Sacro con cui misi in scena il “KOLBE – Azione Sacra in Due Parti” che venne anche ripreso da Tele+1 (ed ancora adesso passa qualche volta su SKY, lo so perché la SIAE mi paga i diritti). Quello stesso anno conobbi (grazie a Dio, perché stavo per prendere i voti da monaco a Chiaravalle… non scherzo) e m’innamorai della donna fantastica che ancora oggi misteriosamente, contro ogni qualsivoglia logica mi sopporta: Paola Cipollina. Con lei creammo nel 1996 l’Accademia dello Spettacolo (ceduta all’attuale proprietario nel 2002/2003 ed oggi ancora esistente sotto il nome di “Accademia della Comunicazione Consapevole”) e quindi aprimmo nel novembre 2001 l’innovativo e meraviglioso spazio Teatro Estremo (che vendemmo assieme all’Accademia sempre nel 2003) in cui ho avuto l’onore di avere ed ospitare personaggi come Oreste Lionello, Rena Mirecka (prima allieva poi partner del genio rivoluzionario Jerzy Grotowski), Garabombo delle Risse con il suo dolorosissimo spettacolo sull’AIDS, la rassegna internazionale di teatro femminile Danae… oltre ovviamente a recitare io stesso negli allestimenti che producevo (come “Mutilazioni” e “Burattini”) assieme alla mia rocambolesca e variopinta compagnia chiamata “Gli Instabili del Teatro Estremo”. Intanto nel 2000 era nata la salvezza della vita mia: mia figlia Elisa Giulia.
Ricordo vividamente che quando la presi in braccio (Paola aveva partorito con il cesareo, quindi fui il primo a tenerla fra le mani) compresi subito che io – se mai ciò era stato vero in precedenza – non appartenevo più a me stesso, ma a lei. Solamente, totalmente ed esclusivamente a lei. Ogni mia decisione si sarebbe riflessa su di lei. Ogni mia gioia, ogni mio errore, ogni mia vittoria, ogni mia sconfitta, ogni mia scelta l’avrebbe coinvolta, l’avrebbe interpellata direttamente… e quindi sentii che non potevo più permettermi il lusso di essere un inguaribile bohemienne, un poeta maledetto, un rabdomante di emozioni da palco… Così, insieme con Paola, decidemmo di chiudere quel capitolo formidabile e sciaguratamente romantico della nostra carriera sia personale che professionale.
Del resto devi sapere che ancora oggi io baratterei immediatamente ogni mio film, ogni mio spettacolo ed ogni mia creazione pseudoartistica con un sorriso di mia figlia Elisa… perché lei – lei sola – è un valore totale, assoluto, dannatamente viscerale. Quindi – dopo lunga ponderazione – cedemmo e vendemmo tutto per poi fondare, sempre assieme a Paola, la nostra casa di produzione video ASTAROX Srl e da lì ebbi la fortuna di inziare a lavorare subito con clienti importanti come FieraMilano, Aimpes/Mipel, L’Oreal, SONY, ATM, Roberta di Camerino, Brevivet, Fiorucci, Roche, SKY, Edibrico, RAI, Mediaset, etc… In breve tempo ci trovammo a dover prendere una piccola palazzina su due piani in zona Stazione Centrale (con teatro di posa), sei dipendenti fissi, cinque stazioni di montaggio AVID Media Composer, le prime innovative camere con ottiche Cinema HD della Panasonic… Però, però… mi stavo impigrendo, mi ero perduto. Avevo smarrito completamente il senso del mio lavoro (che mero “lavoro” non dovrebbe mai essere, ma sempre gioco e di-vertimento) e mi stavo adagiando su bei fatturati e sui prodotti video dei quali magari non ero sempre artisticamente fierissimo ma che mantenevano la mia cosiddetta “baracca” di lusso. Poi una notte fra il 12 e 13 marzo 2007 dei simpatici e graziosi ladri mi rubarono tutto. Proprio tutto. L’ufficio (protetto da sbarre in acciaio e porta blindata) era vuoto, completamente: quindi era evidente la natura da “inside job” del colpo. Qualcuno vicino a me mi aveva fottuto. Uno dei miei mi aveva evidentemente tradito e mi aveva tirato un bel coltello affilato nella schiena. Però anche in quel caso – pensai – che forse fosse il Padreterno stesso ad intervenire e a parlarmi… rammentandomi di non cadere addormentato sui soldi, sul benessere, sulla mediocrità borghese di un fragile ed illusorio “stato di agiatezza”. Del resto dopo anni di teatro, di poesia, di notti in bianco, di affamata passione, quella della mia estremamente produttiva casa di video-produzione sembrava davvero la tomba definitiva di ogni sogno, di ogni desiderio artistico. Per questo non ho mai amato molto il mondo delle agenzie e della pubblicità in generale, anche se ipocritamente ho spesso lavorato con loro solo per i soldi. Ed ancora adesso mi dà il mal di stomaco pensare all’aridità intellettuale che pervade quei templi del commercio visivo, quelle costosissime cattedrali del nulla, del vuoto, della vanità più vana, del fatuo e dell’effimero eletti a sistema di comunicazione e di vita. Ed allora – sull’onda della devastazione morale inflittami dal furto – decisi di produrre, sempre insieme e grazie alla mia miracolosa Paola, il mio primo film: “MANDALA – il simbolo”… un’opera dura, dark, difficile, verbosa, presuntuosamente intellettuale, pesante, piena di citazioni e di infiniti rimandi culturali (che ha partecipato peraltro nel 2008 alle selezioni ufficiali del Sundance)… ma che è e rimane il mio primo amatissimo “bambino”. Da allora ho diretto quattro lungometraggi (due in Italia e due in USA: tutti usciti, distribuiti, venduti, etc…), innumerevoli cortometraggi e music videos oltre che tre opere di videoarte che sono state proiettate e premiate sia in Italia che all’estero nel corso dei vari anni. Attualmente vivo e lavoro con mia moglie Paola a Los Angeles dove nostra figlia – ormai diciottenne – studia in un’università californiana psicologia e scienze politiche.
Come definiresti il tuo stile artistico? C’è qualche regista al quale ti ispiri?
Beh… la definizione del mio stesso stile è una domanda così complessa che – davvero – stento a poter rispondere razionalmente. L’impresa si presenta difficile poiché poco o nulla so di me… e più passano gli anni e più capisco il grande, grande, immenso Carmelo Bene quando diceva di “non esistere”… infatti (e a ragione) l’ontologia lui proprio non la sopportava e sempre esaltava i significanti sopra ai significati… bravo Carmelo!!! Quello che posso forse riconoscere – nei miei lavori – è una certa pulizia del fotogramma, una fotografia che ama ed accarezza le sfumature ed i chiaroscuri (Caravaggio docet), una voglia di precisione quasi maniacale nell’allestire, un amore della simmetria geometrica, una fluidità dei movimenti di camera (detesto cordialmente tutte quelle “riprese fatte a mano” e a cazzo di cane, quelle scene “finto reali”, quelle porcate dal sapore di “video rubato per strada o trovato in mezzo al bosco” in stile strega di Blair…)! Inoltre potrei azzardare di trovare – nei miei film – una comune ossessione tematica nei confronti del male dell’uomo e di come Dio interviene o non nelle nostre piccole, minuscole, microscopiche esistenze. Al di là di questo i miei registi preferiti sono Stanley Kubrick, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Andrei Tarkovsky, François Truffaut, David Linch, Rainer Werner Fassbinder, Ingmar Bergman, Fritz Lang, Wim Wenders per quello riguarda gli stranieri. In Italia amo e adoro Fellini, Leone, Pasolini, Antonioni, Monicelli, Scola, De Sica, Visconti, Rossellini (e certo me ne sto scordando una marea)…! Tutti dei maledettissimi geniacci che – a rivederli ancora oggi – sono di un’attualità totale e sconvolgente… proprio perché non si sono “schierati” o “politicizzati” (lo stesso Pasolini ha sempre scelto l’antropologia disperata sopra all’impegno di partito) ed in loro amo come l’immagine sussiste di per se stessa… non ha bisogno di ulteriori concetti o di motivi o di giustificazioni o di spiegazioni. Tutto è pura bellezza. Pura essenza. Puro gioco. Un’appassionata, pesantissima leggerezza dell’anima che si offre, che si fa abitare e che si fa possedere e – in ultima istanza – ci possiede.
Chi sono secondo te i più bravi registi nel panorama internazionale? E con chi di loro vorresti lavorare e perché?
Attualmente quelli che reputo i migliori registi (o comunque quelli che mi emozionano e che credo abbiano un certo valore simbolico, una certa precisa estetica narrativa) sono Quentin Tarantino, Ridley Scott, David Fincher, Christopher Nolan, Michael Haneke, Darren Aronofsky, Kenneth Branagh, Paul Thomas Anderson, Lars von Trier all’estero. Mentre in Italia rimango ancora legato – magari con una scandalosa, imperdonabile retorica vergognosamente strapaesana e vetero-nostalgica – al Salvatores di “Mediterraneo”, al Tornatore di “Nuovo Cinema Paradiso”, al Benigni di “La vita è bella”… forse epifanie momentanee della loro carriera (del resto non si può fare un capolavoro ad ogni piè sospinto!), forse culmini d’arte reale, forse botte di fortuna creativa o forse un reale talentaccio (non so giudicare me stesso, figuriamoci se posso farlo con gli altri e quindi non mi permetto…) ma sta di fatto che tra i miei più stretti contemporanei – i giovani registi moderni e modernissimi di oggi – vedo solo la tristezza dell’ambiente pseudocreativo culturalmente borghese e presuntuoso da cui provengono… vedo la loro pigra indole masturbatoria e barocca basata su di una ricerca sterile dell’effetto immediato… vedo chiaramente che provengono dalla pubblicità super-fighetta, dalla ruffianeria videoclippara, dalla serie TV nazional-popolare, dalla commedia pecoreccia e rassicurante per famiglie lobotomizzate… Nessuno di loro rischia per davvero… nessuno si mette in luce e si espone fino a sputtanarsi… nessuno si autoflagella come dovrebbe fare un vero artista (ricordiamo De Sade, Sant Agostino, Sartre e Raimbaud tanto per iniziare)! Vogliono tutti giocare sul sicuro, sapendo già che carte hanno in mano loro e spiando slealmente quelle cha ha il loro avversario… taroccando e barando la roulette per far uscire il loro numero fortunato. Di fatto non ho nessuno – tra i miei più stretti coetanei – che mi esalta, che mi da i brividi, che mi fa torcere le budella dall’emozione… Riguardo poi a quelli con cui vorrei lavorare… beh direi proprio nessuno! Sono un bastardo dal cuore d’oro, un individualista inguaribilmente generoso ma pur sempre individualista… sono un sognatore in solitario… sono una dolce carogna, una bestia con un carattere all’apparenza spagliaccione, casinaro e cazzaro ma in realtà il mio centro di gravità permanente è molto rude ed ostico, ossessionato dal controllo e con un indole parecchio difficile… Sono – per dirla assieme al buon vecchio Vittorio Gassmann – davvero “una grandissima testa di cazzo”! Inoltre detesto “somigliare” a qualcuno o a qualcosa prima di me. Se quando giro una scena mi accorgo che sto (volontariamente o involontariamente) imitando o copiando il lavoro di qualche altro mio collega… allora faccio di tutto per spostare la camera, per cambiare radicalmente il frame e renderlo definitivamente “mio”. In fondo l’unica parvenza di valore che la creatività possa avere è solo ed esclusivamente quello di essere sé e null’altro da sé… Nel momento in cui “imitiamo” scimmiottando goffamente (e magari anche con sincera ed ammirata devozione) i nostri padri, maestri, mentori e miti… siamo nulla, siamo perduti, abbiamo fallito. E questo lo dico proprio perché – prima di raggiungere questo mio attuale spudorato livello di autocoscienza – ho spesso dipeso dagli altri, li ho imitati, li citati, li ho plagiati al limite dello schifo e senza vergogna di apparire “non mio”, senza paura di poter essere accusato di “furto creativo”… Credo questo comportamento deplorevole sia derivato da una mia lunga e dolorosa lotta con una fortissima insicurezza psicologica di fondo – che per anni mi ha attanagliato – rendendomi timoroso anche solo di far udire quella che era la mia autentica voce. “Stai attento Max… devi rispettare gli altri… non devi urtare la loro sensibilità… non devi troppo rompere le balle con la tua arte… sai Max quello è un dottore, quello è un onorevole, quello è un reverendo, quello è un senatore…” ed ecco che tutto questo ti schiaccia sotto al peso di un senso di inadeguatezza e di inferiorità. Poi una mattina ti svegli e scopri che non ti piaci, che non sei nessuno, che non hai un volto, un’identità, un’anima… e lo hai fatto solo per essere accettato, per “piacere” alla massa ignorante ed imbecille. Allora lasci che il mondo ti ferisca per l’ultima volta, chiudi le porte del cuore e smetti di dare agli altri il potere di dirti chi sei, che cosa sei e quanto vali. Scegli tu se vuoi uccidere o se vuoi morire. Insomma per dirla breve: già l’arte in generale è inutile e non ha il minimo senso… se poi dobbiamo anche stupidamente imitarla (e male) allora è meglio che ci diamo alla cancelleria, alla gastronomia, all’ippica…
Chi sono stati i tuoi maestri?
Ahi, ahi, ahi… i maestri… questi sublimi mostri, in cui vediamo una luce tenebrosa che vogliamo dannatamente superare… l’eterno problema del Padre e del Figlio spirituale… Dio e Lucifero. Potrei citare San Bernardo da Chiaravalle, quando diceva che “troverai più nei boschi che nei libri, poiché gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”… potrei citare Friedrich Nietzsche quando gridava che “non c’è niente da fare: ogni maestro ha solo un allievo – e questo gli diventa infedele – perché è destinato anche lui a essere maestro”… e potrei chiudere con Michelangelo Antonioni quando spavaldamente affermava “mi sono fatto da solo: credo di aver avuto per maestri i miei occhi”! Hanno tutti in fondo ragione e tutti lasciano il tempo che trovano. Adesso faccio cinema ma devo ammettere che la cosa è puramente accidentale: non scherzo. Avrei potuto fare altro, avrei potuto vivere un’altra vita ora. Ma questo è ciò che faccio adesso, perché mi diverte… perché mi piace… perché mi fa guadagnare e perché sono un maledetto sadomasochista dell’arte. Fare film è solo la casuale espressione momentanea, immanente, dell’oggi… che la mia essenza sta scegliendo (sia a favore che contro la mia volontà) in questo preciso istante della mia non-esistenza, per rivelarsi impunemente ed indegnamente agli occhi degli altri. Però potrei anche essere in un teatro a Varsavia o su di un monte in Tibet… ciò non cambierebbe il cammino vettoriale che sto facendo. Quindi i miei “maestri” non sono prettamente cinematografici. Coloro che chiamo affettuosamente “i miei morti più vivi dei finti vivi di oggi” (ovvero i miei unici maestri) si chiamano Eraclito, Platone, Dante Alighieri, William Shakespeare (se era poi veramente lui), Jacopone da Todi, Fyodor Dostoyevsky, Charles Baudelaire, James Joice, Eugenio Montale, Padre David Maria Turoldo, Alda Merini… Da loro imparo ogni giorno, da loro “rubo” ogni giorno, a loro torno ogni giorno come un cane infedele… come un figlio eternamente prodigo di stupidità… come un piccolo ladro che si pente e che però sa di non poter vivere senza quella immaginaria refurtiva… I miei maestri sono tutti visitati dal genio irriverente, dalla musa ribelle, dalla parola bestemmiata e sacra dell’arte. Del resto nella nostra storia c’è solo un “Ulysses”, solo un “Amleto”, solo un “Delitto e castigo”…
«La sceneggiatura è il genere di scrittura meno comunicativo che sia mai stato concepito. È difficile trasmettere l’atmosfera ed è difficile trasmettere le immagini. Si può trasmettere il dialogo; se ci si attiene alle convenzioni di una sceneggiatura, la descrizione deve essere molto breve e telegrafica. Non si può creare un’atmosfera o niente del genere…» (Conversazione con Stanley Kubrick su 2001 di Maurice Rapf, 1969). Cosa ne pensi in proposito? Quanto è importante la sceneggiatura per la realizzazione di un’opera cinematografica?
Santo Cielo che meravigliosa citazione, Andrea… che sentenza lapidaria ed autentica… che verità inconfutabile! Grazie per avere basato questa tua domanda sulla geniale frase di Kubrick! La sceneggiatura – così tanto venerata, riverita, adorata soprattutto dai bambinoni fumettari di Hollywood – null’altro è che un elemento (tra i vari) della rappresentazione. Per dirla sempre con il mitico Carmelo Bene: la sceneggiatura è solo “scrittura di scena”, il cui valore e la cui importanza sono al pari di una mera scenografia di legno o di cartone, di un oggetto posato in bella vista su un tavolo, di una luce ben piazzata… Noi occidentali – così sempre dannatamente ossessionati dalla parola – abbiamo fatto partire perfino il nostro libro più sacro, il Vangelo, dicendo che “in principio era il Verbo”! Verbo, parola, logos, pensiero, espressione… Ma in realtà tutto passa e tutto è “detto” solo ed esclusivamente attraverso la cosiddetta macchina attoriale: un corpo, un’entità, una presenza/assenza. Non c’è Vangelo senza la fisica presenza di Cristo nel mondo così come non c’è Verbo senza un Dio che lo faccia carne. Quando aprii ed inaugurai nel Novembre 2001 il Teatro Estremo a Milano dissi, in una mia lunga intervista alla RAI, che il mio nume tutelare era Antonin Artaud e che nel mio spazio volevo che la gente tornasse a “sentire” l’odore di Dio… non solo la sua parola, quindi, ma soprattutto il suo sentore! Poi c’è anche una doverosa forma di rispetto verso chi scrittore lo è per davvero: Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli, Alexander Pushkin, Marcel Proust, Lev Nikolayevich Tolstoy, Victor Hugo, Italo Svevo, Alberto Moravia… allora dove li mettiamo, eh..? Li poniamo davvero al pari di uno sceneggiatore de “I Cesaroni”, di “Un medico in famiglia” o, anche per prendere esempi più illustri, di “CSI Miami” o di “Friends”? Ma andiamo, dai… per piacere! Scrivere una sceneggiatura è – al massimo – un’elegante e raffinata forma di fumetto descrittivo a colori… forse anche una complessa e divertente ed erudita lista della spesa che poi gli attori dovranno incarnare una volta che le luci si accendono. E questo lo sapevano benissimo sia Stanley Kubrick, che Ingmar Bergman, che Federico Fellini, che Sergio Leone, che Roberto Rossellini… i quali spessissimo cambiavano e riscrivevano la sceneggiatura sul set, al momento… facendo incazzare notevolmente gli autori…!
«Ho sempre detto che i due registi che meritano di essere studiati son Charlie Chaplin e Orson Welles che rappresentano i due approcci più diversi di regia. Charlie Chaplin in modo grezzo e semplice, probabilmente non aveva il minimo interesse per la cinematografia. Si limita a schiaffare l’immagine sullo schermo, e basta: è il contenuto dell’inquadratura che importa. Invece Welles, al proprio meglio, è uno degli stilisti più barocchi nello stile tradizionale del racconto filmico.» (Conversazione con Stanley Kubrick su 2001 di Maurice Rapf, 1969). Cos’è più importante dal tuo punto di vista l’inquadratura di Chaplin o la narrazione Welles? Come si è evoluto da allora il cinema?
Nessun cineasta o filmmaker o come diavolo lo vogliamo chiamare… dovrebbe dimenticare che lo scopo principale del loro lavoro è – come ho già detto ampiamente credo – di emozionare, di agire su quella dimensione profonda che apre in noi le porte del subconscio e lo scuote. Ne consegue che quando i significati prevalgono sopra ai significanti (come in Chaplin, dove il “messaggio” è spesso tutto ciò sul quale lui punta) si hanno opere “a tema” o “impegnate”. Però nel caso di Chaplin la sua fortuna e benedizione è sempre derivata dal fatto che lui era ed è stato – prima di ogni altra cosa – un puro attore! Quindi un corpo, una macchina attoriale perfetta e snodata, una carne eternamente pronta alla trasfigurazione e alla rappresentazione. Tutti coloro i quali fanno o vorrebbero fare del cinema dovrebbero ricordarsi che il pubblico ti perdona tutto (o quasi tutto…) tranne che una “bruttezza” nell’esecuzione ed un intento “predicatorio”! Quindi tra i due ben venga anche l’onanismo barocco e compiaciuto di Orson Welles (che comunque rimane un genio assoluto)! Da allora direi che il cinema non si è mai più evoluto, anche perché – de facto – tutto quello che si poteva dire è stato detto dai Fratelli Lumiere e da Georges Melies. Basta. La Milano Films produsse e girò nel 1911 il film “Inferno” (ovviamente tratto dalla “Divina Commedia”) che ebbe un successo strepitoso negli USA e che ancora oggi fa paura per gli incredibili effetti speciali… nel 1917 alcuni nobili ricchi europei, armati con le prime macchine da presa quasi portatili, girarono nelle loro sontuose residenze alcuni film erotici e porno amatoriali, lanciando semiufficialmente il genere “hard”… quando Andy Warhol “inventò” la video-arte nel 1969 si rese poi conto che un polacco lo aveva fatto molto prima di lui… Il cinema – come forma d’arte (o pseudoarte) – non ha la minima possibilità di crescita, di cambiamento o di evoluzione (sia tecnica che concettuale). È per definizione un intrattenimento onirico e perpetuo (e quindi infernale, come la maggior parte dei nostri sogni) che si continua a reiterare come una lunga, infinita, inesauribile filastrocca… che però noi desideriamo ascoltare sempre! Le uniche evoluzioni (se così le vogliamo chiamare) sono forse di tipo tecnico: ma anche quelle le avevano tutte già inventate alla fine dell’800. Oggi puoi appiccicare un supereroe in calzamaglia spandex colorata su di uno sfondo blu o verde tramite un software di compositing e modelling 3D oppure puoi ancora farlo (come una volta) dipingendo direttamente il fotogramma ed usando lo stereoscope… non cambia niente… perché è sempre un sogno ad occhi aperti, un’illusione motoria derivante da immagini che si susseguono velocemente… Ed ecco che ritorniamo allo sciamano, al narratore, al druido, al contastorie che raduna la gente attorno al fuoco…
«Comunicare in modo visivo e tramite la musica significa superare le rigide classificazioni basate sul linguaggio verbale da cui la gente non riesca a staccarsi. Le parole hanno un significato molto soggettivo e altrettanto limitato, e circoscrivono subito l’effetto denotativo che può avere un’opera d’arte a livello emotivo e subconscio. Il cinema è fortemente legato a quel tipo di espressione, perché di solito i contenuti più importanti di un film sono ancora affidati al veicolo delle parole. Poi c’è un’emozione che li sostiene, ci sono gli attori che generano sensazioni, e via dicendo. Ma sostanzialmente è comunicazione verbale.» (Conversazione con Stanley Kubrick su 2001 di Maurice Rapf, 1969). Cosa pensi di queste parole di Kubrick che in alcuni suoi film, vedi 2001 Odissea nello spazio, ha dato alla musica e alle immagina un predominio potente? Qual è la tua posizione in merito alla tipologia di linguaggio che dovrebbe essere usato nel cinema di oggi perché risulti emozionalmente più incisivo per lo spettatore?
Fin dai suoi primordi è indubbio quanto il binomio/associazione tra film e musica sia qualcosa di arcaico, necessario, imprescindibile. A mio avviso non esiste un modo od una modalità specifica per riuscire ad emozionare meglio lo spettatore. Sta tutto all’artista e a quanto vuole soffrire, sbattersi e mettersi in gioco. Del resto quello tra pubblico/massa e tra artista/elite è un braccio di ferro che dura da sempre: si può essere compresi o incompresi, si può avere fortuna creativa o meno… senza poi mettere di mezzo l’atroce categoria dei cosidetti “critici” che, sempre il geniale Carmelo Bene, definiva spietatamente “eunuchi che parlano di sesso”! Credo che il linguaggio da usare in un’opera sia quello che ti è più consono, quello che è veramente tuo… senza cercare di “impressionare”. Purtroppo o per fortuna l’arte è un dono, è un essere visitati, è una non-scelta che facciamo quando null’altro – nella nostra vita – può bastare a farci esprimere. Non scegliamo noi il modo, il linguaggio, il codice con cui ci riveliamo al pubblico… ma è l’esatto opposto! Lo so che è sempre patetica ed esecrabile l’autocitazione (chiedo perdono a tutti per questo), ma ritengo che la spiegazione migliore possa essere offerta dalla frase finale del mio spettacolo “KOLBE” del 1995, quando dicevo «io credo non perché vedo, ma perché sono stato visto». Ecco… è tutto qua il rapporto artista/linguaggio.
Perché secondo te oggi il cinema, il teatro, sono importanti e vanno seguiti?
Perché sono la cosa più assurda, inutile ed innecessaria: e quindi automaticamente indispensabile e fondamentale alla vita di ciascuno di noi. Ad un malato terminale non raccontiamo leggi fisiche, formule geometriche o teoremi architettonici. Ad un amico disperato non dispensiamo diagrammi finanziari, piani di rientro o flussi di investimenti economici. Ad una persona amata non regaliamo certificati catastali, attestati civici o documenti comunali. L’arte è la nostra sola ragione di vita. Solo l’arte può salvarci la vita. Punto. Il resto è fandonia cronachistica, contumacia morale travestita da significato, cazzate da giornaletto… Solo l’arte e la bellezza possono salvare. Null’altro. Abbiamo iniziato da sempre e non smetteremo mai di volerci far narrare la stessa identica storia, ascoltare la stessa identica canzone… per poter piangere e ridere con essa. Anche quando la nostra vita si svolgeva nelle caverne ed il nostro unico scopo era la pura e sola sopravvivenza in un ambiente che definire ostile sarebbe solo un ridicolo eufemismo… anche allora i nostri antenati hanno sentito l’urgenza d’animo di dipingere sulle rocce, di raccontare per simboli, di scavare pietre con forme piene di bellezza, di indossare maschere sciamaniche per poter essere abitati da altri… Siamo noi: e si chiama arte.
Ci parli dei tuoi ultimi lavori e dei lavori in corso di realizzazione? A cosa stai lavorando in questo momento?
Carissimo Andrea, come tu sai bene non amo parlare dei miei progetti attuali o futuri: un po’ per decenza ed un po’ perché sono molto superstizioso! Quello che posso dirti è che sicuramente l’anno scorso è stato flagellante per me, dato che – a causa di alcuni gravissimi tradimenti da parte di gente che ho aiutato anche economicamente – ho dovuto posticipare molte mie imminenti produzioni ed in qualche modo sono stato costretto a ricostruirmi una vita nuova. Ciò ha richiesto del tempo, per curare le ferite… per risorgere letteralmente dalle ceneri di me stesso. In parte è stato per colpa mia, senza dubbio. Mea culpa, mea maxima culpa. Non lo nego e mi assumo in toto la responsabilità dei madornali errori che ho compiuto (soprattutto a livello umano) e dei quali poi molti si sono vigliaccamente approfittati, cercando di trarne vantaggio… poveri straccioni. Piccoli ladri delle periferie morali, fronti mai increspate da un vero pensiero, anime misere e senza la minima traccia di cultura che – oggi – ho voluto perdonare, soprattutto per togliermi io un peso di dosso. Da allora ho giurato a me stesso che non faccio e farò più favori a nessuno… che se accetto un lavoro è perché ci credo con l’anima… che un mio “sì” vale tutta la mia parola e quindi devo avere una totale ed assoluta fedeltà in cambio. Devi sapere Andrea che – tramite la mia manager – ricevo ogni giorno fra le due e le sei sceneggiature (alcune anche da amici, che mi spiace scontentare) e a tutti sento però l’obbligo di dare solo la mia risposta più sincera, foss’anche ai limiti della brutalità. Se la storia propostami fa cacare: allora dico chiaramente che non la voglio, non la considero, non la dirigo. Puoi offrirmi quello che vuoi, puoi promettermi lucignolescamente danaro e successo: ma il mio rimane un “no”. Ed ecco che… magia delle magie… da quando ho inziato ad attuare questa modalità di azione… mi sono arrivati nuovi progetti e nuove bellissime opportunità! Per rispondere più precisamente e dettagliatamente alla tua domanda, ti dico che ad oggi ho già ufficialmente firmato tre contratti: uno per dirigere il thriller/horror “The Book of Judah”, uno per dirigere il western/drama “Lightning Ghost” ed uno per riscrivere il thriller/action tedesco “Der Fochmann-Code”. Ma tutto questo solo ed esclusivamente dopo che avrò girato il mio adorato “The Nemesis”, uno psychological thriller i cui finanziamenti ormai sono quasi chiusi e la cui distribuzione è stata già ufficialmente garantita sia in USA che nel resto del mondo…!
Immagina una convention all’americana, Max, tenuta in un teatro italiano, con qualche migliaio di adolescenti appassionati di teatro e cinema. Sei invitato ad aprire il simposio con una tua introduzione di quindici minuti. Cosa diresti a tutti quei ragazzi per appassionarli al mondo della recitazione, del teatro e della settima arte? Quali secondo te le tre cose più importanti da raccontare loro sulla tua arte?
Oh mio Signore… una cosa che decisamente mi fa stare male è il pensare di propormi ai giovani come loro guida o mentore… elargendo discutibili e non richiesti consigli edificanti che possano essere di sprone al loro futuro…! Ho appena detto che l’anno scorso, ancora alla tenera età di 48 anni, ho fatto un mare di errori, di sbagli, di cazzate… come posso e da quale pulpito dovrei arrogarmi il diritto di parlare alle nuove generazioni… con quale autorevolezza…? Tutto ciò che potrei al massimo dire loro è che non devono mai, mai e poi mai dimenticare quel è la vera natura del teatro e del cinema: il gioco! In tutte le altre lingue del mondo recitare equivale a giocare: “to play” in inglese, “jouer” in francese… Questo mestiere è l’unico, in tutta la storia, che permette oggettivamente di rimanere bambini in eterno… arrivi sul set e dici a quel tizio che deve fare il poliziotto, a quell’altro che deve fare il cowboy e ad un altro ancora che deve essere un robot…!!! Ma ti rendi conto di quanto è assurdo e meraviglioso al tempo stesso!? Possiamo “giocare ad essere” per tutta la vita, senza paura di passare per infantili, senza timore di essere rinchiusi in un istituto psichiatrico (anche se qualcuno, per essersi spinto troppo oltre, a volte ci finisce davvero). È il mestiere più bello del mondo e noi che abbiamo il privilegio di poterlo praticare dobbiamo sempre ricordare che è un di-vertimento (ovvero la nostra attenzione, per un paio d’ore, di-verte su altro che la mera sopravvivenza ed i problemi di ogni giorno). Un gioco che può salvare una vita, proprio come la chirurgia e la medicina. Un gioco che si basa su precise leggi fisiche e numeriche, come l’architettura e la scienza. Un gioco che offre la possibilità di cambiare, proprio come la fede e la religione. Quindi in chiusura, per condividere le tre (solo tre…?) cose più importanti direi che i giovani dovrebbero: 1) Non prendersi mai troppo sul serio e dovrebbero ridere molto e non dovrebbero credere, prima di tutto a loro stessi alle balle che ci raccontiamo quotidianamente; 2) Ricordarsi di giocare e di di-vertirsi sempre e con tutto, perché i delfini (tra i mammiferi cetacei più intelligenti e, come diceva Plutarco, “le uniche creature che amano l’uomo in quanto tale”) passano il 70% del loro tempo giocando; 3) Di non vendersi mai l’anima, di sbagliare, di amare troppo e di pagarne il prezzo perché solo così si può penetrare il mondo con occhi innocenti;
Dove potranno seguirti i tuo ammiratori e i tuoi fan?
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Intervista di Andrea Giostra.
Max Leonida
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Andrea Giostra
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