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Nero di seppia

Antonio Calabrò, “I mille morti di Palermo”, Ed. Mondadori, Milano, 2016.

Antonio Calabrò scrive un libro bellissimo e tristissimo al contempo. Un libro che andrebbe inserito dal Ministero dell’Istruzione del Governo Italiano nei programmi di studio obbligatori di scuola media inferiore, di scuola media superiore e di tutti i corsi universitari (pubblici e privati), perché solo attraverso la cultura si può sconfiggere la mafia, la corruzione, il malaffare. Il libro di Calabrò è un eccellente strumento culturale che – forse inconsapevolmente dall’autore! Non lo sapremo mai! – si pone questo obiettivo così ambizioso ed estremamente nobile, che non ha nulla a che vedere con i pretestuosi obiettivi dei “professionisti dell’antimafia”, che si stanno rivelando sotto gli occhi del mondo intero per quello che Leonardo Sciascia aveva già previsto tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, e che saggiamente Andrea Camilleri ci ricorda con il suo bellissimo libro “Un onorevole siciliano. Le interrogazioni parlamentari di Leonardo Sciascia” (2009); dove Sciascia, appunto, che è stato uno dei più grandi intellettuali italiani di sempre, essendo un Uomo che vedeva dove gli altri non vedevano, e capiva dove gli altri non capivano, descrive le belle e sbarbate facce degli onorevoli di allora, coperti da vestiti eleganti e raffinati cuciti a mano dai migliori sarti romani mentre con sguardi sicuri e altezzosi si pavoneggiano nelle passeggiate parlamentari tra una seduta e l’altra affollando l’elegante Transatlantico di Palazzo Montecitorio, e riusciva a vedere, ripetiamo, senza impressionarsi – come vedeva il conturbante visionario e grande pittore fiammingo Hieronymus Bosch nello splendido dipinto “Salita al Calvario” del 1535 la vera natura e le vere anime dei potenti di allora, come di oggi, anno del Signore 2017.

Ma che c’entra tutto questo con il libro di Calabrò, mi chiederete? C’entra eccome! Perché Calabrò racconta le cose come stanno per chi ha fame di verità! Non ci sono contorsionismi dialettici o ermeneutici meta-significati. Il libro racconta i fatti come un vero cronista deve saper fare, come il vero giornalista nell’accezione di fine ‘800, ma che dovrebbe essere attuale, di Joseph Pulitzer: «Un giornalista è la vedetta sul ponte di comando della nave dello Stato. Prende nota delle vele di passaggio e di tutte le piccole presenze di qualche interesse che punteggiano l’orizzonte quando c’è bel tempo. Riferisce di naufraghi alla deriva che la nave può trarre in salvo. Scruta attraverso la nebbia e la burrasca per allertare sui pericoli incombenti. Non agisce in base al proprio reddito né ai profitti del proprietario. Resta al suo posto per vigilare sulla sicurezza e il benessere delle persone che confidano in lui

Oggi, scrive Calabrò, dopo averci raccontato dei mille morti di Palermo come avrebbe fatto il miglior allievo di Pulitzer, la mafia è stata soppiantata interamente dalla ‘ndrangheta calabrese che si è fortemente radicata nelle regioni del nord Italia e nei Paesi occidentali molto sviluppati economicamente, dove ripulisce con grossi investimenti “legali” i danari sporchi di sangue ricavati dai centinaia di traffici illeciti che gestisce in tutto il mondo. La mafia è diventata alleata-sub-alterna alla ‘ndrangheta, è stata in gran parte decapitata nei capi storici (quasi tutti rinchiusi col 41bis!). Ma paradossalmente – scrivo io ispirato da Calabrò – quello che doveva seguire, ossia, l’interruzione drastica di «una lunga stagione di complicità e connivenza tra il mondo delle imprese e quello della mafia, nella giusta convinzione che proprio la mafia sia una devastante alterazione dell’economia di mercato, un ostacolo alla competizione che deve premiare le imprese migliori, non le più prepotenti, corruttrici, inquinate da sostegni violenti e illegali…» (pag.244), non è avvenuto perché i nostri governanti eccellono solo per mediocrità, per analfabetismo idiomatico, per analfabetismo informatico e tecnologico, per analfabetismo burocratico. Le prove insindacabili ed oggettive? Per rimanere solo in Sicilia, dove la mafia si narra nacque, i tantissimi miliardi di fondi europei, quasi venti miliardi nel periodo che va dal governo regionale presieduto da Lombardo a quello presieduto da Crocetta, sono stati disimpegnati dall’Unione Europea perché gli “alti burocrati” della Regione Siciliana non sono stati capaci di predisporre a norma del Codice degli Appalti Pubblici i bandi, gli avvisi pubblici, le gare d’appalto, insomma, di spendere e di rendicontare questi miliardi di euro – che è bene ricordare sono (ahìnoi!, erano) dei siciliani e non certo dei burocrati, dei funzionari o dei politici – entro i termini perentori stabiliti dall’Unione Europea per tutti i Paesi membri; e inesorabilmente ed irreversibilmente, così come perentoriamente, l’Unione Europea li ha disimpegnati e dati, quale premialità, alle regioni europee più virtuose (che nella fattispecie significa che hanno saputo spendere i fondi europei per le opere che si erano impegnati a realizzare con il Programma Operativo presentato all’Unione Europea e approvato dalla stessa Unione Europea con l’impegno dei miliardi di euro dei quali stiamo discutendo); oppure, altra prova oggettiva e solo per rimanere nella più bella isola del Mediterraneo, che la Sicilia è all’ultimo posto, insieme alla Bulgaria, come capacità di spesa dei fondi europei, come la stessa Unione Europea ha scritto in uno dei suoi tantissimi Report sulla capacità di spesa dei fondi europei, facilmente recuperabili nei siti-web ufficiali!

I fatti, per chi ha fame di verità vera, sono questi, e sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere e sapere; certamente non sono sotto gli occhi di chi pur vedendo non vuol vedere, ossia quei siciliani – e purtroppo sono proprio tanti! – che amano per natura ancestrale lamentarsi di tutto e di tutti e poi, se c’è da rimboccarsi le maniche o da metterci la faccia, spariscono come tante anguille dentro uno stagno lurido di acque irrancidite.

La mafia, scrive ancora Calabrò, oggi non ha più potere perché non ha soldi, e senza soldi non si ha potere. Oggi i nuovi “boss” mafiosi iniziano a commettere gravissimi errori. Alcuni esempi che riporta Calabrò: 1) la famiglia di Porta Nuova taglieggia la produzione di “Squadra antimafia”, fiction di Canale 5; i carabinieri dopo poco tempo li individuano tutti e con un perentorio mandato di cattura di Ignazio De Francisci, vengono messi tutti in galera; 2) i commercianti, i costruttori, i professionisti bagheresi si ribellano pubblicamente e formalmente, con denunce pesantissime, contro i loro taglieggiatori: anche questi finiti in galera. E potremmo continuare ancora.

Ma se è vero, come scrive Calabrò, e come è indubbiamente vero, che la mafia oggi conta pochissimo nel mondo dell’economia e degli affari siciliani, è altrettanto vero che i burocrati e i funzionari siciliani, di ogni ordine e grado, e di tutte le istituzioni pubbliche siciliane, “ominicchi”, come li definì Sciascia ne “Il giorno della civetta” (1961), collusi o che pusillanimamente volgevano lo sguardo da un’altra parte, sono ancora al loro posto di comando con un potere immenso che solo una regione come quella Siciliana, a Statuto Speciale e con una legge ad hoc quale quella per la elezione diretta del Presidente della Regione Siciliana, ha potuto dare loro.

Oggi la sfida dello Stato, almeno in Sicilia, come scrive ancora Calabrò, è cambiata: «Cosa Nostra, quel che ne resta, non è di cartapesta. Ma non è più potentissima. La sfida per lo Stato adesso è continuare con indagini, repressione, prevenzione, per impedire ai mafiosi di riorganizzarsi. Tagliare il consenso verso i boss e i clan criminali. E costruire una nuova coscienza civile, un’economia produttiva libera dai vincoli mafiosi, una politica attenta seriamente, senza vuota retorica, agli interessi generali, l’importante, insomma, è non dimenticare una lezione di Giovanni Falcone: <La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione>» (pag.248).

Ed è a questo punto che il libro presenta una “lacuna propositiva” per eccessiva cautela e per una signorilità d’altri tempi dell’autore. La lacuna sta nel fatto che quelle “indagini” di cui ci parla Falcone dovrebbero essere indirizzate verso i burocrati e i funzionari della pubblica amministrazione, piccoli e grandi che siano, che hanno rappresentato per secoli l’humus dentro il quale la mafia dal dopoguerra in poi ha trovato il suo habitat naturale e dove ha affondato le sue radici rendendole resistenti come il diamante, finché Uomini come Mauro De Mauro, Pietro Scaglione, Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, Mario Francese, Boris Giuliano,Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre,Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici, Giuseppe Fava, Ninni Cassarà, Rosario Livatino, Libero Grassi, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pino Puglisi, solo per citare alcuni dei mille morti ricordati nel suo libro da Calabrò, col sacrificio della loro vita hanno demolito irreversibilmente il potere mafioso siciliano per sempre.

Ma il fatto “irrisolto” è che ancora oggi, questi burocrati e funzionari infedeli e collusi, che come ha scritto il Sostituto Procuratore di Palermo Antonio Di Matteo nel suo libro “Collusi” (2015), sono ancora pacificamente e tranquillamente al loro posto di comando e che lui, nel suo importante ruolo istituzionale di Sostituto Procuratore «è stato messo di fronte all’aspetto più subdolo ed insidioso del potere mafioso, e a quello meno nobile di una magistratura in cui a fianco degli onesti e dei coraggiosi convivono qualche colluso e tanti pavidi, più attenti ad evitare rischi e sovraesposizioni che a rendere veramente giustizia.» (p.81).

E allora, per concludere questo mio scritto, quello che andrebbe fatto per innescare un processo virtuoso frutto di una sana cultura civile, civica e sociale che cita più volte Calabrò, è individuare uno per uno questi burocrati e funzionari infedeli, corrotti e collusi, e sperdili in galera, ovvero, pre-pensionarli col minimo di pensione possibile, e mettere al loro posto giovani trentenni “alfabetizzati” secondo l’accezione del XXI Secolo, colti, preparati, professionali, con esperienze importanti all’estero, fuori dal nostro Paese; giovani appassionati della Civiltà e della Cultura sana, amanti del loro Paese, l’Italia, e farli rientrare perché fuggiti da un paese dove il talento e la meritocrazia sono da sempre stati visti, da questo potere che ci ha soffocato fin quasi alla morte, come il peggiore dei mali, come la peggiore peste da combattere ad ogni costo a vantaggio della mediocrità, e metterli nei posto di comando istituzionale che per decenni sono stati “detenuti” da questi tantissimi “traditori-ignavi-pusillanimi” della nostra bellissima isola e del nostro Bel Paese!

È chiaro che per fare questo ci vorrebbe un Governo Nazionale coraggioso e capace di “prendere il Toro per le corna”: cosa impossibile in Italia, cosa da sognatori, da scrittori funzionali, da inventori di belle favole con un lieto finale.

Ma forse una speranza c’è. Forse, come ci suggerisce saggiamente Calabrò tra le righe eleganti del suo scrivere, un percorso da percorrere rimane. E questo percorso è il sapere, la conoscenza, la cultura. Ed è proprio per questo che il libro di Calabrò va letto senza esitazione. Perché chi lo leggerà, per il bene suo e per il bene del suo Paese, non potrà che migliorarsi e accrescere il suo sapere, la sua conoscenza, la sua cultura.

Recensione di Andrea Giostra

 

Alcuni Link

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ANDREA GIOSTRA
https://www.facebook.com/andrea.giostra.37
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