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La lingua, il potere, la democrazia: quali sono le correlazioni e le distorsioni del “potere della parola”? Piccole riflessioni a partire dalla prospettiva di Gustavo Zagrebelsky in “Sulla lingua del tempo presente”.

Il saggio di Zagrebelsky, “Sulla lingua del tempo presente”, viene pubblicato da Einaudi nel 2010. Leggerlo dieci anni dopo la sua stesura e pubblicazione, ci apre una visione della lingua nostrae aetatis disvelatrice del modus operandi sistematico che il “potere politico” e il “potere economico” mettono in atto utilizzando la lingua per accrescere e consolidare l’esercizio della persuasione, e per trasformare i cittadini in adepti-follower omogeneizzati, passivi e acritici rispetto a quelle che sono le questioni e le scelte vitali di una società civile finalizzate ad una sana convivenza “democratica”, rispettosa delle differenze e della peculiare natura delle singole persone che vivono una comunità, un determinato contesto (città, regione, stato) sociale. Quello che viene descritto da Zagrebelsky nel 2010, possiamo osservarlo ancora oggi, nel 2020, in un momento di grandi cambiamenti sociali e culturali che stanno investendo la maggior parte dei paesi Occidentali e l’Italia in particolare.

Le virgolette sul termine “democrazia” sono necessarie – all’interno di questo articolo – proprio perché oggi, nel Ventunesimo secolo, parlare di democrazia, di reale “democrazia compiuta” (?), lo si può fare solo se si conosce davvero l’accezione che oggi ha assunto questo termine-concetto, la sua reale applicazione, la valenza sociale, la condivisione di un significato che non sempre – anzi raramente! – è uguale per tutti coloro che lo utilizzano: ogni parte – politica, culturale, ideologica, religiosa – utilizza questa parola con accezioni diverse, talvolta sintoniche talaltra diacroniche, confondendo e rendendo colpevolmente sterile l’originaria e vera matrice del nostro significante. È evidente, da quello che quotidianamente tutti noi assistiamo sui social, nelle TV, leggendo i giornali, come la stragrande maggioranza di coloro che utilizzano il termine “democrazia”, con sorprendete nonchalance e apparente naturalezza, ignorano cosa significhi realmente, qual è stata l’origine della democrazia a partire dal 6° secolo a.C., e come e dove fu esercitata da allora lasciandola in eredità culturale, con le sue imprevedibili mutazioni, alle generazioni a venire fino a giungere a quella attuale.

Per chi dei lettori (non giuristi) fosse interessato ad approfondire la conoscenza della genesi, la storia e lo sviluppo nei secoli della democrazia occidentale, consigliamo, per iniziare, la lettura della voce “democrazia” della Treccani. Poi è ovviamente necessario continuare con lo studio di tutti gli approfondimenti (decine di saggi e di autori) che lo stesso Treccani cita e consiglia ai suoi lettori all’interno della voce “democrazia”, a partire dal “Politico” di Platone (dialogo sulla politica a seguito del suo viaggio in Sicilia tra il 366-365 a.C.) fino a giungere ai più importanti giuristi ed intellettuali italici del Novecento quali Costantino Mortati (“La costituzione in senso materiale”, 1940), Vezio Crisafulli (“La Costituzione e le sue disposizioni di principio”, 1952; “La sovranità popolare”, 1954); e Carlo Esposito (“La rappresentanza istituzionale”, 1940; “La costituzione italiana”, 1954). Un ulteriore e importante supporto conoscitivo lo può certamente dare il nostro contemporaneo Gustavo Zagrebelsky con i suoi scritti e in particolare coi piccoli ma interessanti saggi, facilmente comprensibili anche ai non giuristi e ai non addetti ai lavori, riportati nella bibliografia di questo articolo.

Ma torniamo a “Sulla lingua del tempo presente”!

«L’argomento di questo libro è la lingua del presente – lingua nostrae aetatis – momento sociale e politico (2010 è l’anno in cui fu pubblicato il saggio di Zagrebelsky). La lingua è la manifestazione autentica, non solo l’espressione artificiale di ciò che è colui che parla. Attraverso l’ascolto della sua lingua si può cercare di percepire qualcosa dell’essere che la usa, e che usa quella e non altra lingua. «Il linguaggio come “casa dell’essere”», secondo uno degli oscuri e, al tempo stesso, provocanti motti di Martin Heidegger (“In cammino verso il linguaggio”, Mursia, Milano, 2007): il linguaggio che al tempo stesso introduce gli uni agli altri e separa gli esseri parlanti. Per questo, lo studio della lingua di una certa fase storica è il passaggio inevitabile per la consapevolezza dell’ambiente umano in cui viviamo.» (p. 3). Questo scrive Zagrebelsky nelle prime pagine del suo libro. Volendo sintetizzare le parole di Zagrebelsky, la lingua e l’uso che ne fa il singolo cittadino, rende chiara e trasparente la sua identità sociale e culturale, prima ancora che politica e ideologica. La lingua e il suo uso diventano di fatto gli unici strumenti che possiede l’uomo per avvicinarsi o separarsi da altri uomini, per sentirsi parte identitaria di un gruppo o per differenziarsi da quel gruppo di persone. Da questa prospettiva si comprende bene come la lingua diventi uno strumento formidabile – se la si usa con la distorta finalità di chi detiene il potere – di controllo delle masse, e quindi di rafforzare il potere politico ed economico di chi lo esercita in quel particolare momento storico. «Quello che importa – continua Zagrebelsky – è che effettivamente noi non solo pensiamo in una lingua ma la lingua «pensa con noi» o, per essere ancora più espliciti, «per noi». Nelle dittature ideologiche, la lingua è un formidabile strumento di propaganda e, con riguardo a tale uso, è stata studiata. Lo stesso Klemperer ha seguito la vita della lingua del regime hitleriano, dalla presa del potere alla caduta, nei Diari 1933-1945 (“Testimoniare fino all’ultimo”, Mondadori, Milano, 2000) e ha riassunto le sue analisi nel libro sulla LTI (Lingua Tertii Imperii – “Lingua del Terzo Reich”)» (pp. 4-5). Utilizzare, per esempio, alcune parole ripetutamente ed ossessivamente, ripetendole migliaia di volte, attribuendo una accezione di parte e ideologica, consente di influenzare notevolmente il pensiero di chi soccombe al (neo)significato che il potere deliberatamente vuole attribuire a determinate parole per fini propri e di convincimento del popolo stesso. Joseph Goebbels (potentissimo ministro della propaganda del Terzo Reich) fu il maestro e l’inventore di questa “strategia” persuasiva del popolo attraverso l’uso ossessivo e ripetitivo di determinate parole e frasi: «Ripetere una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e diventerà verità». E da questo punto di vista oggi siamo testimoni di come alcune parole vengano utilizzate con una poderosa ed ossessiva coazione a ripetere. A seguire ne analizzeremo alcune per fare qualche esempio contemporaneo. I “significati” che vengono con forza attribuiti a determinate parole, che Zagrebelsky definisce “prestazioni della lingua”, inevitabilmente condizionano il popolo – il suo pensiero, la sua analisi, le azioni (che perdono il “potere” del “libero arbitrio”) – e di conseguenza le sue scelte. «C’è però una non trascurabile differenza, a seconda che queste prestazioni della lingua siano gestite centralmente e con autorità da una qualche burocrazia linguistica, visibile o invisibile, oppure, al contrario, siano lasciate allo sviluppo diffuso e spontaneo dell’uso che quotidianamente ne viene fatto. La lingua, nel primo caso, può essere dotazione del potere, che se ne avvale per rendere omogenee le coscienze e governarle massificandole; nel secondo, può essere strumento di coscienze che elaborano forme comunicative di resistenza all’omologazione.» (p. 7).

In quale delle due condizioni ci troviamo oggi in Italia?

Per il 2010 la posizione che descrive Zagrebelsky è molto chiara. Lasciamo al lettore di queste pagine la libertà di scoprirla leggendo il saggio del nostro autore.

Oggi, nel 2020, dal punto di vista linguistico, che tipo di utilizzo fa il popolo della lingua e quali le perverse deviazioni che utilizza il potere in carica?

Per dare uno stimolo di riflessione al lettore (certamente non daremo – né siamo in grado di farlo! – nessuna soluzione esaustiva per comprendere il fenomeno attuale) utilizzeremo la seconda parte del saggio di Zagrebelsky dove vengono analizzate una serie di parole in uso in quel periodo storico (2010), e dove vengono sottolineate le distorsioni e, per certi versi, le perversioni politiche finalizzate all’interesse di parte e non certamente all’interesse del paese o del popolo che lo abita. Le dinamiche linguistiche descritte da Zagrebelsky nell’analisi che fa di alcune parole in uso allora le ritroviamo incredibilmente attuali e contemporanee nell’era della politica dei social italiana. Una tra tutte la parola “amore” della quale, ripercorrendola dal nostro saggio, tentiamo di fare un’analisi oggettiva e distaccata dell’uso che se ne fece allora e che se ne fa tutt’oggi in politica. Per fare questo, iniziamo dai fatti decritti e analizzati da Zagrebelsky che parte dal Kèrygma («Termine che, nel Nuovo Testamento, indica l’annuncio della fede ai non credenti, e quindi la proclamazione della salvezza come inizio del regno di Dio, che si realizza attraverso la parola del Cristo» cfr. Treccani), ovvero, “la discesa in campo” di un notissimo imprenditore milanese che il 26 gennaio 1994 a reti unificate nella sue TV commerciali, annunciò che sarebbe “sceso in campo” per “salvare il paese” dagli incapaci, dai corrotti, dai parassiti prestati alla politica. Uno dei passaggi chiave e più interessanti del suo discorso fu «una frasetta che sembrava buttata lì: “l’Italia è il Paese che io amo”. Così anche l’amore faceva la sua discesa nel linguaggio della politica.» (p. 21). Questa frase ebbe trasversalmente un effetto potentissimo tra gli italiani che videro la TV quella sera. Un effetto tanto potente che il neo Partito Democratico pensò bene di adeguarsi a quel linguaggio, a quelle parole, in una sorta di parafrasi che diceva: «Noi, i democratici, amiamo l’Italia». Da un lato si assistette ad una geniale frase che attrasse prima la curiosità, poi l’interesse e infine la fiducia di milioni di italiani delusi dalla politica esercitata dal potere fino ad allora; dall’altra parte, la superficiale e per certi versi rocambolesca imitazione linguistica della parte avversaria, diede la netta sensazione di una formidabile «tronfia retorica» che effettivamente, più che avvicinare allontanò gli italiani dal partito di sinistra che aveva coniato quelle parole che nelle intenzioni dovevano demolire quelle avversarie. «Questo modo di usare la lingua viola una regola fondamentale che tutti dovrebbero osservare, massimamente in politica, il regno delle differenze: ciò che non potrebbe essere diverso non merita d’essere detto. Questa è l’etica alla quale dovrebbe ispirarsi il parlante che non vuole gettare parole al vento.» (p. 22). A questo punto è curioso e interessante analizzare l’uso e gli effetti che ebbero le stesse parole pronunciate dalle opposte parti politiche: «Le due dichiarazioni d’amore si equivalgono? No, non si equivalgono. La prima (“L’Italia è il paese che io amo”) è una dichiarazione sovrana che proviene da uno che ha già detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto continuare una vita felice in sé e per sé. (…) L’Italia, così, diventa la prediletta che, in virtù di questa predilezione, dovrà ricambiare l’amore che tanto gratuitamente le è stato donato. La seconda dichiarazione (“Noi, i democratici, amiamo l’Italia”) è tutt’altra cosa. Non è un atto sovrano. È un atto sottano. (…) La dichiarazione d’amore, in questo caso, suona falsa perché è obbligata, l’amore obbligato cosa è? Può essere un’adulazione interessata. Anche la prima, naturalmente, lo è, ma si presenta in tutt’altro modo, come un dono d’amore, una dedizione gratuita, un atto commovente. Chi potrebbe resistere a cotanto amante, a un simile seduttore? Chi potrebbe, a sua volta, non riamarlo? Ma se non riama? Se l’amore non è corrisposto? Se non c’è corrispondenza a un amore così grande da comportare il sacrificio della propria bella vita, è perché qualcuno odia (pp. 23-24). Fu chiaro in quel tempo e a quel punto – volendo interpretare le parole di Zagrebelsky – che l’uso “distorto” e “opportunistico” della parola “amore”, innescò la genesi di una divisione ideologica tra “coloro che odiano” e “coloro che amano”: l’Italia, gli italiani, la patria, la cultura, le tradizioni, i beni culturali, l’arte, il cibo, la cucina, gli imprenditori, gli artigiani, i giovani, gli anziani, i poveri, … etc… etc…

L’esempio di Zagrebelsky, le dinamiche linguistiche e le differenti percezioni che abbiamo appena riportato sulla parola “amore” nell’uso di allora, possiamo certamente traslarle ad altre parole, ad altri concetti, ad altri significanti in uso oggi in modo ossessivo, quotidiano, ripetitivo e spesso decontestualizzato, che non possono che innescare processi linguistici ideologici divisori più che aggreganti. Quello che possiamo certamente dire è che oggi, in questi giorni e mesi del 2020, assistiamo e ascoltiamo l’uso di parole che effettivamente hanno le stesse ricadute linguistiche e di “appartenenza” che ebbero nel 2010. Un uso che divide una parte politica dall’altra non per i contenuti e per le soluzioni politiche proposte, bensì per il “pericoloso” messaggio che di fatto racchiudono queste parole come le hanno volute le parti che le hanno utilizzate e che le stanno utilizzando. Per comprendere il ragionamento, riportiamo in ordine sparso solo alcune parole, alcuni esempi di uso distorto di questi ultimi anni e mesi, lasciando al lettore l’analisi delle “deviazioni di significato” che appaiono assai evidenti: salvare, diritti, difesa dei confini, difesa del popolo, sicurezza, democrazia, Europa, violenza, incapaci, incompetenti, traditori, manette, galera, odio, nazismo, fascismo, comunismo, xenofobia, violenza, bullismo, etc… etc…

Tutte queste dinamiche, in Italia, fanno il paio con un sub-strato culturale e umano che favorisce l’attecchirsi di scontri violenti e preoccupanti proprio sul linguaggio e sulla lingua. Se è vero come è vero quello che disse nel 2016 – e da allora le cose sono peggiorate e non certo migliorate, come dimostrano le recenti ricerche su questo tema dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) – il prof. Tullio De Mauro (1932) (uno dei più grandi linguisti italiani e già ministro della pubblica istruzione dal 2000 al 2001 nel governo Amato II ), che «Il 70% degli italiani non capisce quello che legge (…) 8 italiani su 10 hanno difficoltà a utilizzare quello che ricavano da un testo scritto, 7 su 10 hanno difficoltà abbastanza gravi nella comprensione, e 5 milioni di italiani hanno completa incapacità di lettura. Un nostro diplomato nella scuola media superiore ha più o meno lo stesso livello di competenza di un ragazzino di 13 anni che esce dalla scuola media: i 5 anni di scuola media superiore girano a vuoto e questo determina un bassissimo livello di quelli che entrano all’università. Il risultato è che i diplomati di scuola media superiore in molti paesi hanno livelli di competenza linguistica, matematica, di comprensione, di calcolo ben superiori a quelli dei nostri laureati. Abbiamo bisogno di un buon livello di istruzione per poter trovare le fonti buone per informarci e per utilizzare bene queste informazioni, per utilizzarle criticamente! Questo sarebbe indispensabile per tutti, per un buon esercizio del voto.» Ma se la stragrande maggioranza degli italiani, ben oltre il 70%, ha effettivamente queste difficoltà di comprensione, che tecnicamente vengono definite “analfabetismo funzionale”, ovvero, l’incapacità di passare dalla decifrazione della lettura alla comprensione di un testo anche semplice, allora si comprende bene come sia davvero difficile che queste stesse persone – il 70% dei cittadini del nostro paese, e tra questi un’alta percentuale di laureati e diplomati – possano esercitare un senso critico sulle proposte politiche che vengono fatte e quindi decidere consapevolmente su cosa sia meglio per il loro benessere, per quello della loro famiglia e della comunità di appartenenza. Il consenso politico per una parte piuttosto che per un’altra, e la capacità di creare e di manifestare una propria opinione che sia aderente e rispondente alla realtà dei fatti che si vive quotidianamente, ai propri reali bisogni (primari e secondati, e non certamente ai “bisogni indotti” dal Capitalismo finanziario finalizzato a creare “cittadini consumatori”), diventa davvero difficile e spesso dissonante con la verità. È evidente, da questa analisi, l’incapacità del cittadino che subisce la propaganda e le “accezioni” che il potere dà a determinata parole, di muoversi nella direzione che li conduca al miglioramento delle sue condizioni di vita e favorisca, con le sue scelte ed azioni, il consolidamento del proprio benessere e della comunità di cui fa parte, nonché il rafforzamento della democrazia nell’accezione nobile e “originaria” del termine. In sostanza, “soffrire” di analfabetismo funzionale vuol dire subire acriticamente e passivamente la lingua del potere e rimanerne vittime inconsapevoli. La presunta facoltà di discernere cosa è “bene” da cosa è “male” per sé stessi, per la propria famiglia e per la propria comunità, fra le centinaia di migliaia proposte politiche, di post e di informazioni che volano veloci sui social, su Internet, nelle TV, nelle radio, sulla carta stampata, viene inevitabilmente compromessa, se non azzerata. Conoscere la lingua ed esercitarne l’uso consapevole, attraverso un livello culturale e di conoscenza adeguato – al quale livello si arriva attraverso lo studio serio e disciplinato –  vuol dire innanzitutto essere capaci di fare i propri interessi e quelli della comunità della quale si fa parte, ed al contempo, essere immuni dalle azioni perverse esercitate dal più potente degli instrumentum regni che è l’analfabetismo del popolo: un efficace e straordinario strumento di esercizio del potere utilizzato dai potenti sin dalla notte dei tempi delle civiltà, e anche – ovviamente! – dai potenti contemporanei delle cosiddette “democrazie”.

 

di Andrea Giostra

Alcuni link

Andrea Giostra
 
Gustavo Zagrebelsky
 
Bibliografia:
Vezio Crisafulli, “La Costituzione e le sue disposizioni di principio”, Giuffrè ed., Milano, 1952
Vezio Crisafulli, “La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in Scritti in mem. V.E. ORLANDO, I, Padova, 1957.
Carlo Esposito, “La rappresentanza istituzionale”, 1940
Carlo Esposito, “La costituzione italiana”, CEDAM ed., Padova, 1954
Martin Heidegger, “In cammino verso il linguaggio” (1959), Mursia ed., Milano, 2007
Victor Klemperer, “Testimoniare fino all’ultimo: diari 1933-1945”, Mondadori Ed., Milano, 2000
Costantino Mortati, “La costituzione in senso materiale”, Giuffrè Ed., Milano, 1940
Gustavo Zagrebelsky, “Il diritto mite”, Einaudi Ed., Torino, 1992 (revisionato e ripubblicato nel 2013)
Gustavo Zagrebelsky, “Sulla lingua del tempo presente”, Einaudi Ed., Torino, 2010
Gustavo Zagrebelsky, “Fondata sul lavoro. La solitudine dell’articolo 1”, Ed. Einaudi, Torino, 2013
Gustavo Zagrebelsky, “Contro la dittatura del presente. Perché è necessario un discorso sui fini”, Ed. Laterza, Roma, 2014.
 
Treccani:
 
PIAAC-OCSE | Rapporto Nazionale sulle Competenze degli Adulti:

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