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Nero di seppia

Nino Di Matteo, Salvo Palazzolo, “Collusi”, Ed. BUR, Milano, 2015.

Recensione di Andrea Giostra

Il 31 maggio 2015, dopo la presentazione di Fabio Fazio in “Che tempo che fa” del libro di Di Matteo e Palazzolo, dal titolo “Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia”, sembrò a tutti i telespettatori e anche a quelli che non avevano visto il programma e l’intervista ma sapevano dell’ospitata di Di Matteo, che il libro, subito dopo, avrebbe avuto un successo incredibile e avrebbe dovuto scalare in poche settimane tutte le classifiche per diventare in pochi mesi uno dei libri più letti e venduti in Italia. Il libro sarebbe stato in grado, come di fatto lo è, di diffondere reale cultura anti-mafiosa e di far conoscere oggettive verità giudiziarie su fatti accaduti molti anni fa, tanto gravi ed eclatanti, che hanno dato al Paese Italia un corso che forse altrimenti non avrebbe preso.

Così invece non è stato! Se vogliamo capire perché ciò non è avvenuto, dovremmo porci le giuste domande che possono aiutarci – probabilmente! – a capire il libro che i due autori hanno scritto su un tema tanto delicato quanto importante per il nostro paese: la mafia che continua ad avere un ruolo strategico e rilevante, nella gestione del potere e dell’economia reale dell’Italia.

Lo stesso Di Matteo, ad un certo punto del suo libro (p.31), ci racconta che già nel 1900, un grande intellettuale, Gaetano Mosca, in una bellissima relazione tenuta a Milano in un convegno dal titolo “Che cosa è la mafia”, disse con estrema chiarezza e semplicità che da sempre i mafiosi più influenti e potenti hanno cercato di legare e intrattenere rapporti con esponenti politici importanti sia a livello nazionale, che regionale, che comunale. Di fatto Di Matteo sposa la tesi di Mosca del 1900, ossia che la mafia da sempre ha cercato di legarsi al potere politico e al potere economico. Il legame era talmente stretto, e non basato sugli affari, che – racconta sempre Di Matteo – un altro grande intellettuale toscano, Leopoldo Franchetti (p.33), aveva pubblicato nel 1877 un’inchiesta sulla mafia in Sicilia che rimane talmente attuale da sembrare scritta ieri. La mafia, il potere politico e il potere aristocratico ieri e quello borghese di oggi, allora come adesso, si aiutavano e si aiutano a vicenda, e si servivano e si servono l’uno dell’altro con estremo cinismo ed efficacia: bisognava eliminare fisicamente un concorrente o un oppositore? Bastava rivolgersi al capo mafioso della zona, e l’eliminazione era garantita in poco tempo, senza scrusciu, senza lasciare alcuna traccia e senza che i colletti bianchi – come si chiamano oggi – a quel tempo i politici e gli aristocratici ricchi, oggi la borghesia imprenditoriale, si sporcassero minimamente le mani.

Il libro di Di Matteo e Palazzolo è molto interessante proprio perché spazia e si sposta abilmente dalla storia della mafia, sin dalla sua nascita siciliana, raccontando fatti avvenuti già alla fine del diciottesimo secolo, molto intriganti e fondamentali per far capire al lettore la natura ancestrale di questo fenomeno. Tutto il racconto di Di Matteo si base su verità giudiziarie passate in giudicato in cassazione e pertanto definitive. Questo per sottolineare che le sue fonti sono sentenza divenute storia che può essere raccontata sui libri.

Chi volesse intraprendere una sana cultura della legalità deve essere consapevole che legalità non significa solo ed esclusivamente rispettare diligentemente le leggi dello stato, ma significa soprattutto possedere e acquisire, sin dalla sua nascita, doti morali ed etiche frutto dell’esempio dei nostri maestri di vita: i nostri genitori, i nostri insegnati, i nostri educatori, i nostri amici di maggiore età, i nostri datori di lavoro, i nostri rappresentanti delle istituzioni che con il loro esempio di vita devono dimostrare questo. Nessun libro di storia, nessun libro sulla (anti-)mafia, nessun saggio, ce lo può insegnare. È un apprendimento che solo un uomo sano culturalmente può passare ad un altro uomo che prima sarà un bambino che diventerà un adolescente, e che poi diventerà un uomo sano moralmente ed eticamente come i suoi maestri di vita.

Ed è questo l’elemento che in tutto il libro non viene mai messo nella giusta evidenza perché un giorno la mafia possa essere sconfitta realmente, o, meglio, come diceva Giovanni Falcone, che non credeva affatto nella sconfitta della mafia da parte dello Stato: «la mafia durerà ancora per lungo tempo, non per l’eternità: perché la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani prima o poi finirà». E poi, con rammarico e delusione diceva spesso: «contro la mafia non si può far niente fino a quando al potere ci sarà questo governo con questi uomini.» La storia si ripete perché ancora oggi la mafia non è indebolita – come ben sottolinea Di Matteo – ma si è trasformata camaleonticamente e in modo molto efficace divenendo sempre più potente.

E poi c’è un altro elemento che Di Matteo e Palazzolo non considerano nella giusta misura, e questo è un grave errore di valutazione del potere mafioso, la differenza sostanziale tra la mafia e lo stato, ovvero: la certezza della pena!

Se con lo stato sbagli violando ed infrangendo le leggi delle istituzioni pubbliche, le leggi dello stato, la condanna non è mai certa, e se hai un buon avvocato e abbastanza soldi, anche se puoi aver commesso un gravissimo reato, puoi farla franca con un’alta e significativa probabilità.

Se con la mafia sbagli violando ed infrangendo le “leggi” della mafia, la condanna è certa, e arriverà con la morte.

E’ questo il vero motivo per cui la mafia finirà solo e soltanto naturalmente, come in fondo riconosce tra le righe lo stesso Di Matteo perché, in una delle sue tante esperienze di indagini e di processi giudiziari, “è stato messo di fronte all’aspetto più subdolo ed insidioso del potere mafioso, e a quello meno nobile di una magistratura in cui a fianco degli onesti e dei coraggiosi convivono qualche colluso e tanti pavidi, più attenti ad evitare rischi e sovraesposizioni che a rendere veramente giustizia” (p.81).

E fa veramente pena ed orrore immaginare oggi Falcone, Borsellino, Chinnici, Dalla Chiesa, Costa, Livatino, e tantissimi altri magistrati e uomini delle istituzioni onesti e amanti del proprio Paese, che hanno dato la loro vita per sconfiggere il fenomeno mafioso, lasciati soli ed allo sbaraglio dallo Stato come tanti Don Chisciotte della Mancia.

ANDREA GIOSTRA

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