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Paolo Massimo Rossi, scrittore, ci presenta il suo ultimo romanzo “Jacob Rohault. I giorni di Venezia”

«L’amore e l’impegno per la cultura può e deve convivere con l’amore per la vita, per i sentimenti, per la scoperta»

 

Ciao Paolo, benvenuto e grazie per avere accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori?

 In qualche modo vorrei presentarmi con le stesse modalità con le quali mi presenterei a me stesso: uno scrittore che esplora i sentimenti e le modalità con cui questi vengono trasmessi a chi legge. In altri termini un costruttore di modi che siano esplicativi del mio modo di concepire la letteratura, come anche le capacità di amare e provare i sentimenti dei miei personaggi. Anche a costo di addentrarmi in quella che, attraverso le parole, ricercate ad hoc, potrebbe apparire come una fredda analisi. Con la speranza che sia stimolante per tutti.

Presentazione libro
Paolo Massimo Rossi “Presentazione libro”

Qual è la tua formazione professionale e artistica? Ci racconti il percorso che ti ha portato a svolgere quello che fai oggi?

 Premesso che prima di iniziare il mio percorso, diciamo così artistico, esercitavo la professione tecnica di ingegnere, devo convenire che la stessa presentava aspetti deludenti che la rendevano insoddisfacente. E non tanto per la mancanza di una visione olistica, che pur in quella attività è più che rintracciabile, quanto per il rischio possibile che il tecnicismo e l’esigenza del “tanto mi tanto” avrebbero potuto farmi relegare in standby le modalità più liriche del conoscere. Dunque, a partire da un momento pur anche nebbioso, ho sentito il bisogno di recuperare aspetti che sino a un certo punto della mia vita erano stati elementi al contorno, caratterizzati solo da momenti ludici secondari e non professionalmente definiti.

 

Nel 2019 hai pubblicato il tuo ultimo romanzo, “Jacob Rohault. I giorni di Venezia” edito da CTL Editore Livorno. Ci racconti come nasce questo libro, dove è ambientato e di cosa narra?

 Jacob Rohault nasce dalla scoperta di un libro che per anni era rimasto inascoltato nella mia libreria, Tractatus Phisicus, scritto da un filosofo francese vissuto nel diciassettesimo secolo: Jacob Rohault, appunto. La bellezza della stampa, ricca di incisioni e disegni scientifici tipici dell’epoca, a un certo punto suscitò in me la curiosità di saperne di più. Cercando, trovai nella rete notizie inspiegabilmente molto scarse. Si trattava di un filosofo francese insegnante alla Sorbonne che aveva scritto e pubblicato un trattato di evidente formazione cartesiana. Ma lo stimolo a scriverne arrivò soprattutto dalla circostanza che Rohault fu rapidamente dimenticato, probabilmente anche per il prevalere, nella cultura dell’epoca, delle teorie Newtoniane. In qualche modo fui affascinato dalla possibilità di rendere giustizia a quell’autore parlando delle sue posizioni scientifiche e del suo amore per la filosofia. Ma anche immaginando, e qui do un riconoscimento alla mia passione scrittoria, una sua permanenza a Venezia per far stampare il trattato. E Venezia, a quell’epoca era il luogo deputato a queste attività.

 

Cosa dovranno aspettarsi i lettori e quale il messaggio che vuoi lanciare loro con questo romanzo?

 Sostanzialmente, che l’amore e l’impegno per la cultura debba e possa convivere con l’amore per la vita, per i sentimenti, per la scoperta non solo di principi scientifici ma anche della consapevolezza che tutti possiamo essere persone, con difetti, pregi, passioni, innamoramenti e, soprattutto, per la disponibilità a parlarne non confessionalmente ma laicamente.

 

Ci parli delle tue precedenti opere e pubblicazioni? Quali sono, qual è stata l’ispirazione che li ha generati, quale è il messaggio che vuoi lanciare a chi li leggerà?

 Prima di Jacob Rohault, avevo scritto altri romanzi: Con gli occhi di Arianna, L’intruso nelle vecchie stanze, Il venditore di pensieri altrui. C’è un filo conduttore che lega questi romanzi, pur molto diversi nei contenuti. E il filo è costituito dalla voglia di partecipare delle emozioni e dei sentimenti di persone che, pur nelle loro diverse peculiarità letterarie, potevano essere simbolo e metafora di un’umanità vera e nelle quali in tanti potevano riconoscere qualcosa di sé. Arianna è stato il tentativo di uno scrittore “uomo” di scrivere un diario tutto al femminile. L’intruso è la storia di una ricerca di vecchi libri e documenti storici in una casa abbandonata; ricerca che, strada facendo, perde il suo oggetto programmato, per abbandonarsi alla lettura di altri scritti, intimi, anche trasgressivi e drammatici d’amore e di morte. Il venditore di pensieri altrui è un gioco sul fraintendimento e sulla interpretazione delle parole e del loro significato. Il messaggio è, evidentemente, un metamessaggio, nel senso che chi legge possa non fermarsi alle storie in sé, ma trovi nel linguaggio usato una corrispondenza amorosa e coinvolgente con quelle.

 

Come nasce la tua passione per la scrittura? Ci racconti come hai iniziato e quando hai capito che amavi scrivere?

 Credo che la passione per la scrittura sia nata dall’emozione provata da bambino leggendo Emilio Salgari e i suoi cicli dei corsari. Una passione che si è trasformata più tardi in amore assoluto anche, lo confesso, per spirito di emulazione con le storie scritte da grandi autori. Un fascino non legato semplicemente alle narrazioni tout court, ma anche alla scoperta di un mondo latente e sotterraneo, in qualche modo poco visibile, di una sorta di insicurezza che quegli autori volevano e dovevano vincere attraverso le loro opere. In fondo facendo in modo che la mia insicurezza fosse specchio della loro, se pur accompagnandola con una inconfessata o inconfessabile vanità.

Paolo Massimo Rossi
Paolo Massimo Rossi

Una domanda difficile Paolo Massimo: perché i nostri lettori dovrebbero comprare “Jacob Rohault. I giorni di Venezia” e gli altri tuoi libri? Prova a incuriosirli perché vadano in libreria a comprarne alcuni.

 Jacob Rohault per la coesistenza degli intrighi tipici della città lagunare con lo stupore e l’onestà intellettuale del protagonista. Che viene irretito dal gioco sensuale e a volte perverso delle donne che lo adulano, lo provocano, lo seducono, lo abbandonano ma che, inaspettatamente, gode del piacere di nuove amicizie e, inevitabilmente, s’imbatte nel fastidio di malevoli inimicizie. Arianna, per la ricerca sofferta di sé stessa. Arianna vive in due donne separate che finiscono per ricongiungersi e trovarsi quando le immagini dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza si incontrano con quelle della maturità: in quel momento, la frammentarietà delle esperienze, umane, sentimentali e a volte eroticamente trasgressive, si avvia a trovare compiutezza in una maggiore coscienza di sé smussando le asprezze altalenanti tra anarchiche velleità e sofferte sottomissioni. Nel venditore di pensieri altrui, per la magia dell’itinerario lavorativo e intellettuale del protagonista Roè: da cartomante a venditore di libri usati a scrittore. Roè percorre strade della Romagna e di una Bologna quasi sempre notturna incontrando e conoscendo persone con le quali non riesce ad aprirsi veramente. Ma è il paesaggio urbano minore che gli suggerisce pensieri, desideri e velleità, come anche i presupposti per raccontare. I rapporti e i dialoghi con le persone con le quali viene a contatto, per quanto superficiali, gli permettono di inventare una personale scrittura che diventa una sorta di palinsesto sul quale costruire le storie. E le parole inventate, ascoltate, lette, ricordate, finiscono per essere le prede con cui nutrire la fame della scrittura.

 

Nel gigantesco frontale del Teatro Massimo di Palermo c’è una grande scritta, voluta dall’allora potente Ministro di Grazia e Giustizia Camillo Finocchiaro Aprile del Regno di Vittorio Emanuele II di Savoia, che recita così: «L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire». Tu cosa ne pensi di questa frase? Davvero l’arte e la bellezza servono a qualcosa in questa nostra società contemporanea tecnologica e social? E se sì, a cosa serve oggi l’arte secondo te? Quando parliamo di bellezza, siamo così sicuri che quello che noi intendiamo per bellezza sia lo stesso, per esempio, per i Millennial, per gli adolescenti nati nel Ventunesimo secolo? E se questi canoni non sono uguali tra loro, quando parliamo di bellezza che salverà il mondo, a quale bellezza ci riferiamo?

 Parole magniloquenti nella forma e certo dettate dall’atmosfera storica e culturale del momento. Calandoci nella realtà dei nostri giorni, potremmo chiedere: Cos’ è la bellezza, nell’arte, nella stessa vita?  Provando a rispondere non dal punto di vista del professionista della scrittura, ma da quello di chi vive nella società tecnologica, o da quello degli adolescenti che spesso sono fuorviati da facili miti e dal fascino del consumo e, conseguentemente del denaro necessario a realizzarlo, sarebbe bello sentire: “Il mezzo attraverso il quale la forma diventa stile”. E questa risposta auguro a loro di pronunciare. In un passo successivo potrei porre la domanda: L’arte e la bellezza decorano la vita e formano le persone? Il sogno dello scrittore vorrebbe ascoltare: “Tutto ciò che decora la vita è formazione”. Dunque la speranza: che i Millennial e gli adolescenti, pur nell’infinita varietà dei canoni possibili, infine salvino il mondo attraverso la conoscenza del bello e dell’arte. E al riguardo non smetterei mai di consigliare la lettura di un testo fondamentale per il mio sentire, diciamo così, artistico. Intendo Filosofia dell’arte di Antonio Banfi, un testo che si avvalse della cura meticolosa di Dino Formaggio per il quale “I veri maestri di vita e conoscenza hanno una caratteristica rilevante: non invecchiano mai. Su di loro e sulle loro opere, il tempo non aggiunge scorie, bensì nuove possibilità, che li rendono sempre più vivi.” Opinione che conferma in ogni caso le parole di Finocchiaro Aprile e rendono universalmente a-temporale il valore della bellezza per la salvezza del mondo.

 

Esiste oggi secondo te una disciplina che educa alla bellezza? La cosiddetta estetica della cultura dell’antica Grecia e della filosofia speculativa di fine Ottocento inizi Novecento?

 Certamente la musica. A partire da Pitagora, che si dice abbia scoperto quasi per caso il fondo numerico/matematico dell’armonia musicale, in tal modo mostrandone il fascino misterioso e ancestrale. Per proseguire con la madre di tutte le discipline della conoscenza: la filosofia. Dopo secoli di speculazioni filosofiche, mi piace ricordare il mirabile, e certo lirico riconoscimento einsteiniano sull’armonia delle sfere enunciato all’inizio del secolo scorso. E d’altra parte, come non inchinarsi di fronte al principio popperiano per il quale una verità scientifica o filosofica può essere tale solo se falsificabile? Una proposizione che non è affatto cripticamente astrusa come potrebbe sembrare, ma che apre al riconoscimento umanistico di teorie che, di volta in volta, sono state oggetto di rifiuto e di critiche feroci e sarcastiche da parte di avversari delle forme di conoscenza precedenti, basta pensare, al riguardo, al giudizio che Schopenhauer – così l’aneddoto recita -, forse in un momento di rancorosa e personale depressione, dette su Hegel: “Un ciarlatano insulso, privo di spirito, schifoso, ripugnante e ignorante, che scribacchiava con incomparabile insolenza, demenza e insensatezza”. Forse l’umanesimo di Popper si sarebbe indignato. E mi perdonino i cultori di altre discipline se ho privilegiato, certo minimalisticamente, la musica e la filosofia come essenziali discipline che possono educare alla bellezza.

 

Charles Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, a proposito dell’arte dello scrivere diceva: «Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16.) Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie abbia successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (il linguaggio utilizzato più o meno originale e accattivante per chi legge), volendo rimanere nel concetto di Bukowski?

 Credo che Bukowski avesse innato il senso dello scrivere. In altri termini possedeva l’istinto della parola sino a usarla in modo dissacrante senza svilirla con linguismi teatralmente preponderanti. In tal modo, nelle sue opere, la storia ha finito per prevalere non tanto sul linguaggio, quanto su quell’uso retorico o lacrimevole dello stesso di cui tanti autori sono stati spesso vittime. Bukowski non concede nulla all’enfasi sentimentale, le sue parole denotano durezza rigorosa – mi si perdoni l’indubbio ossimoro – e altrettanta dolcezza. Con ciò permettendo alla storia di restare il centro della narrazione ma anche di rivalutare il linguaggio, sino a fargli perdere ogni condizione di supporto e contorno, sì da realizzare una perfetta armonia tra forma e contenuto. Dunque, accettando la lezione bukowskiana, accetteremo la parola come elemento di chiarezza certamente, ma anche rivalutandone la caratteristica creatrice di un ritmo sempre concreto e mai debordante, necessario per conservare il riscontro tra il narrato e i suoi modi espressivi. È il ritmo, dunque, che rende suadente la scrittura, pur non rappresentando il mezzo per suscitare l’interesse o per conoscere lo sviluppo e la conclusione della storia. In altri termini, la storia deve coinvolgere il cuore e il suo bisogno di ascolto della narrazione; il ritmo deve parlare, a mio modo di vedere, alle capacità razionali della mente, stimolando curiosità e piacere semantico. In questa dicotomia dello scrivere è racchiuso, io credo, il fascino del leggere e il risultante amore per lo scrivere.

 

«Quando la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare. Ma diventa pericolosa quando, invece di risvegliarci alla vita individuale dello spirito, la lettura tende a sostituirsi ad essa, così che la verità non ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo con il progresso interiore del nostro pensiero e con lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, raccolto infra le pagine dei libri come un miele già preparato dagli altri e che noi non dobbiamo fare altro che attingere e degustare poi passivamente, in un perfetto riposo del corpo e dello spirito.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Qual è la riflessione che ti porta a fare questa frase di Marcel Proust sul mondo della lettura e sull’arte dello scrivere?

 Proust fu anche il poeta della cosiddetta memoria involontaria. Allora penso che la sua idea della lettura come “l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire” sia una proiezione del lettore nel lettore ideale che non può che riconoscersi nello scrittore ideale come suo maestro: in fondo il sogno di ogni esploratore della conoscenza – sia artistico/letteraria che filosofica -. Un sogno molto ottocentesco direi a cui la critica moderna ha riconosciuto evidentemente un valore estremamente lirico – certo possibile in uno scrittore onnisciente che professava l’intradiegesi intima per raccontarsi al mondo – ma, nello stesso tempo, ne ha evidenziato confini e limiti che lo rendono ormai – in una società che pratica come un mantra il valore dell’informazione a disposizione di tutti, compresi gli scrittori – estremamente circoscritto ed elitario, se non velleitario. Un bello studio di Aldo Gargani (Il sapere senza fondamenti) ha mostrato che “il sapere (…) filosofico è una descrizione densa, ossia una raccolta di strumenti, di abiti concettuali, di modelli comportamentali, di condotte operative, di valori e di procedure decisionali inserite nelle forme di vita degli uomini come estensioni dei loro contesti antropologici.” E ancora (è sempre Gargani che parla): “… non esiste il sapere genuino, disinteressato, decontestualizzato, ma solo il potere di quel sapere”. D’altra parte a smentire Proust, esiste un’ottima dissertazione di Riccardo Campi (Citare la tradizione, Alinea Editrice) che riporta una confessione di Voltaire il quale aveva ammesso “di aver notato due versi dalla tragedia omonima di Corneille (Edipo), aggiungendo poi di non essersi fatto scrupolo di rubarli poiché, dovendo dire la stessa cosa di Corneille gli era impossibile dirla meglio”. Dunque un miele già preparato da altri. È vero però che Ezra Pound volle distinguere tra grandi scrittori ladri e cattivi scrittori (ladri anch’essi). Posso esprimere, a valle di questo florilegio di posizioni, una mia idea personale della scrittura: scrivere ha senso solo là dove può spingersi il linguaggio e la sintassi. Ed essenziale, per scrivere, è aver preventivamente letto: molto e di tutto, con dedizione e continuità. Dunque desiderio di “imitazione” in senso generale e non specifico di un testo o di un’opera individuata.

Paolo Massimo Rossi
Paolo Massimo Rossi

«La lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano, Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998, p.30). Molti autori quando parlano di libri e di autori importanti, dicono che leggere un libro e come avere una conversazione con un grande uomo o donna della letteratura e della cultura. Proust sembra dire proprio il contrario. Tu cosa ne pensi in proposito? Cos’è leggere un romanzo, un racconto, un saggio secondo te?

 Non posso, in questo caso, che essere d’accordo con Proust. Pensare che “leggere un libro è come avere una conversazione con un grande della letteratura e della cultura”, sia un vezzo che paga un pedaggio a quella moda che propone di fare del dialogo un elemento qualificante e, volendo, elogiabilmente trasgressivo di vecchi conformismi. Ma è scandaloso dire che ormai la vera trasgressività è rappresentata dal conformismo?  Ritengo che la lettura di un romanzo, di un racconto, di un saggio, sia un’operazione intima: un grande autore avrà pur avuto una sua visione del mondo, ma io sono libero di interpretare in modo diverso quel mondo e di averne una visione che le pagine in lettura, se viste come conversazione, possono vanificare se non offrono un’alternativa, proprio perché quella conversazione è praticamente impossibile.

 

Sempre Buk, a proposito dei corsi di scrittura diceva … «Per quanto riguarda i corsi di scrittura io li chiamo Club per cuori solitari. Perlopiù sono gruppetti di scrittori scadenti che si riuniscono e … emerge sempre un leader, che si autopropone, in genere, e leggono la loro roba tra loro e di solito si autoincensano l’un l’altro, e la cosa è più distruttiva che altro, perché la loro roba gli rimbalza addosso quando la spediscono da qualche parte e dicono: “Oh, mio dio, quando l’ho letto l’altra sera al gruppo hanno detto tutti che era un lavoro geniale”» (Intervista a William J. Robson and Josette Bryson, Looking for the Giants: An Interview with Charles Bukowski, “Southern California Literary Scene”, Los Angeles, vol. 1, n. 1, December 1970, pp. 30-46). Cosa pensi dei corsi di scrittura assai alla moda in questi anni? Pensi che servano davvero per imparare a scrivere e per diventare grandi scrittori come viene promesso da chi li organizza e sponsorizza?

 Non credo che i corsi di scrittura siano utili se non a chi li propone a pagamento. Oltretutto, a mio modo di vedere, rappresentano una scorciatoia un po’ squallida per imparare a scrivere. Posso dire che sono metafora dei Bignami utilizzati da studenti che poco impegno hanno profuso nello studio? Credo che ci sia una sola scuola per imparare a scrivere, ed è la lettura; una modalità che deve essere ossessiva, sino al punto di tornare più di una volta su testi già letti, anche dopo anni, cercando atmosfere, parole, espressioni, che potrebbero esserci sfuggite o dimenticate. E vorrei esortare ogni aspirante scrittore a profanare i libri che hanno in lettura aggiungendo sui margini laterali delle pagine o sottostanti la stampa, note, osservazioni, domande. Ho sempre avuto l’opinione che un libro intonso sia un libro da tenere in libreria come elemento decorativo, magari perché è dotato di un bel dorso di copertina. Magari ho detto un’ovvietà, ma è un’ovvietà che mi piace!

 

Chi sono i tuoi modelli, i tuoi autori preferiti, gli scrittori che hai amato leggere e che leggi ancora oggi?

 Credo che, come accade a ogni lettore, i modelli possano essere tanti e, soprattutto diversi a seconda del momento, dell’età e dei riferimenti anche casuali in cui ci imbatte. Da ragazzo fui folgorato da William Faulkner, Palme selvagge, Santuario e La paga del soldato su tutti. Fui avvinto da uno dei topos letterari di Faulkner: il desiderio di alcuni dei protagonisti di vivere più vite. Acquistai su una banchetta di libri usati un libricino di un autore allora per me sconosciuto: Molloy di Samuel Beckett. Devo confessare, solo per il costo: 200 lire (vecchie). Il libro fu una rivelazione che mi spinse a comprare, negli anni successivi, tutte le opere di Beckett pubblicate in Italia. Passai rapidamente attraverso Italo Calvino, Franz Kafka che tanto amai per quanto mi procurò un’angoscia profonda, senza per altro che quell’amore ne venisse scalfito. Poi il teatro di Brecht, Le poesie di Rafael Alberti, i romanzi di Albert Camus, di Jean Paul Sartre con la sua trilogia e, soprattutto, con Le parole, che fu il primo libro che riuscì a commuovermi. Aden Arabia di Paul Nizan lo leggevo spesso durante i miei viaggi in Medio Oriente, lo dimenticai in un’oasi: il mio primo atto appena rientrato in Italia fu riacquistarne una copia. Poi Elias Canetti – sicuramente l’autore più difficile che abbia mai affrontato – On the Road, l’opera omnia di Italo Calvino con, soprattutto, Il castello dei destini incrociati che spesso mi ha fatto venire in mente il film La Ronde di Ophuls per il legame con cui gli eventi sono legati tra loro. Ovviamente, e non poteva essere diversamente, per anni mi sono dedicato a Joyce, leggendo ogni cinque anni Ulysses (e ormai sono alla sesta tornata), Dedalus e il suo alter Ritratto dell’artista da giovane; appassionandomi poi al teatro di William Shakespeare, e all’opera di Borges. E potrei dichiarare uno sviscerato amore per Raymond Quenod, per l’ironia e la capacità di essere surreale restando coi piedi per terra; per Antonio Tabucchi e per tutti i suoi libri. Last but no least, Adolfo Bioy Casares con L’invenzione di Morel, stupenda elegia dedicata alla possibilità di un autore di essere immortale.  Elenco evidentemente riduttivo, ma non poteva essere diversamente.

 

Gli autori e i libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri e tre autori da leggere nei prossimi mesi dicendoci il motivo della tua scelta.

 Farenheit 451 di Ray Bradbury (Strabiliante l’invenzione degli uomini-libro come ribellione alla deriva culturale indotta dalla televisione. I fiori blu di Quenod (inimmaginabile nel suo essere fantastica, eppure incredibilmente realistica, la vicenda nella quale il duca D’Auge quando dorme nel suo castello del XIII secolo sogna la vita di Cidrolin, mentre Cidrolin, dormendo su una chiatta ormeggiata sulla Senna ai nostri giorni, a sua volta sogna quella del duca D’Auge). Il grande sonno, in cui Raymond Chandler disegna una delle vicende del suo alter ego ispettore Marlowe, detective deluso e umano nel suo innamorarsi senza speranza, nel cercare la verità e nel subire la sconfitta nel momento stesso della sua vittoria.

 

Quali sono i tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti che vuoi condividere con i nostri lettori?

 Ho in programma la pubblicazione di una decina di racconti, dei romanzi Diari sospesi, 18:30 per caso a Parigi e Delitto in tribunale. Oltre alla ri-presentazione, in circoli e librerie, di romanzi già conosciuti come Con gli occhi di Arianna, Jacob Rohault I giorni di Venezia, L’intruso nelle vecchie stanze e Il venditore di pensieri altrui.

 

Ti andrebbe di consigliare ai nostri lettori tre film da vedere assolutamente e tre registi da studiare per capire l’arte del cinema? E perché secondo te proprio questi?

 Il posto delle fragole di Ingmar Bergman (I ricordi trasformati in nostalgia senza mai cadere nella trappola dei rimpianti). I 400 colpi (Tenero e poetico omaggio di Francois Truffaut all’adolescenza e a una Parigi solo da amare). Gran Torino di Clint Eastwood (Un ex eroe pistolero finge di sparare ai cattivi mimando con le dita l’azione di un revolver, finendo ironicamente e inevitabilmente ucciso).

 

Dove potremo seguirti e come vuoi concludere questa chiacchierata?

 In questo mondo dominato dai social, mi si può seguire su Facebook sulla mia pagina: Paolo Massimo Rossi scrittore. La mia conclusione: ho sempre amato i libri e la lettura. Posso dire che, a memoria d’uomo, mai ho preso sonno senza aver mai letto qualche pagina, sia che fossi in casa, sia in un campo di un deserto orientale, sia in albergo a Parigi.

INTERVISTA di Andrea Giostra

 

Paolo Massimo Rossi
https://www.facebook.com/paolomassimo.rossi

Jacob Rohault. I giorni di Venezia
https://www.ctleditorelivorno.it/

Andrea Giostra
https://www.facebook.com/andreagiostrafilm/
https://andreagiostrafilm.blogspot.it

 

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