Lucrezia Rubini, storico, critico d’arte, docente di storia dell’arte | INTERVISTA
«La Bellezza è l’espressione armoniosa della diversità rispetto alla realtà. L’essere umano, a differenza degli animali, ha un’intelligenza, emotiva, che gli permette di riconoscere la bellezza, in particolare di un’opera d’arte, poiché si pone naturalmente, istintivamente ed empaticamente in sintonia con quanto prodotto dall’artista.» (Prof.ssa Lucrezia Rubini, storico e critico d’arte, docente di storia dell’arte, collezionista, perito d’arte, saggista, grafologa, life coach, Effettista emerito, membro dell’Accademia Internazionale d’Arte Moderna)
Ciao Lucrezia, benvenuta e grazie per avere accettato il nostro invito. Se ti dovessi presentare ai nostri lettori, cosa racconteresti di te quale critico d’arte, saggista e amante della cultura e della bellezza?
Salve, grazie a te, per avermi invitata e coinvolta in un’intervista così ampia, che ha costituito per me una grande occasione di riflessione su molte mie idee e posizioni sull’arte. A questa domanda risponderei che l’arte è l’unica competenza che ho, e solo in teoria, a cui dedico e che prende tutte le mie energie; è l’unico contributo che posso dare all’umanità nel poco tempo in cui stazionerò qui, per cui cerco di far conoscere l’arte e gli artisti, insegnando, studiando, scrivendo e curando mostre, ma anche nutrendomi della bellezza dell’arte in Italia e nel mondo, visitando, studiando, fotografando e videando mostre, musei e luoghi d’arte.
… chi è invece Lucrezia Donna nella sua quotidianità? Cosa ci racconti della tua vita al di là dell’arte e del lavoro?
Il mio essere Donna è strettamente connesso con l’arte e con il lavoro, perché svolgo queste attività permeandole di un approccio specifico femminile, fatto di intuizione, sensibilità, sensitività, capacità di conciliare l’inconciliabile in quanto multitasking, capacità di affrontare la sofferenza e la fatica; a questo si aggiungono resilienza e pervicacia, che sono componenti individuali. Nel quotidiano, come tutte le madri lavoratrici, devo conciliare molte cose, ultimamente anche la cura dei genitori, per cui le energie residue da dedicare all’arte sono sempre quelle che scaturiscono da un’eccedenza, un grande desiderio e quasi una sfida.
Qual è il tuo percorso accademico, formativo e professionale che hai seguito e che ti ha portato a fare quello che fai oggi nel vestire i panni del critico d’arte e della saggista?
Direi che ho attraversato un percorso lungo e travagliato, fatto di casualità, coincidenze fortunate e grande pervicacia. Sono cresciuta in una famiglia modesta, mio padre infermiere e mia madre sarta, ma dai valori profondi. Mia madre, benché avesse conseguito solo la quinta elementare, già nella culla, chiese “la grazia” che io fossi “brava a scuola”; non so quanto inconsciamente abbia agito questo suo sogno e “proiezione” su di me, fatto sta che ho sempre trovato nello studio un rifugio, uno scudo, un’evasione, un riscatto e, successivamente, piacere, interesse, curiosità, quasi avidità. Dopo le scuole medie sono stata indirizzata dai miei genitori alle magistrali– benché i professori avessero consigliato il liceo classico–, perché, dicevano– la maestra è un buon lavoro “per una donna”. Appena diplomata, a 18 anni, ho vinto il concorso bandito in quell’anno con un ottimo punteggio e sono entrata immediatamente in ruolo alle elementari (straordinariamente senza raccomandazione, come era pratica universale all’epoca). Ho studiato e lavorato contemporaneamente con grande fatica e rinunce, ma in corso e con ottimi risultati, presso il Magistero, Materie letterarie, Dipartimento di Storia dell’arte, nel 1989, con lode, relatore il prof. Luigi Spezzaferro, con una tesi sulla funzione psico-socio-percettiva delle immagini devozionali, in Storia sociale dell’arte. La scelta della facoltà fu dovuta alla necessità di conciliare studio e lavoro, dal momento che lettere era una delle poche facoltà che non richiedeva la frequenza obbligatoria, rispetto a lingue, biologia e psicologia, che pure erano materie che mi sarebbero piaciute e soprattutto i corsi si tenevano di pomeriggio dalle 16 fino alle 20, per cui potevo anche frequentare. Organizzai il piano di studi senza preoccuparmi degli esami che in futuro mi sarebbero serviti per lavorare – tanto il lavoro già ce l’avevo! – ma seguendo solo i miei interessi. Così scelsi i dieci esami dell’indirizzo di Storia dell’arte e ben 5 biennalizzazioni, mentre gli altri 5 furono di storia, italiano e inglese. Il corso di studi fu ben saldo, spaziando su tutta la storia dell’arte e con esami in storia della critica d’arte, storia sociale dell’arte, storia del collezionismo, storia del disegno dell’incisione e della grafica, storia delle tecniche artistiche, e con docenti del calibro di Giuliano Briganti, Bruno Toscano, Paolo Moreno e il “mio“ Luigi Spezzaferro. Prima di laurearmi ho intercettato il lavoro di schedatrice dei beni culturali presso la Sovrintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma (oggi ICCD) per puro caso, perché mentre facevo ricerca nell’archivio di Palazzo Venezia per la mia tesi, che verteva sulle chiese di Tivoli, feci notare alla “signora che era lì”, che le collocazioni di vari oggetti erano sbagliate: quella signora era la dott.ssa Annamaria Pedrocchi, direttrice del Catalogo, che mi disse di fare domanda come schedatrice, io le risposi che ancora non ero laureata e che stavo elaborando la tesi e lei mi rispose di provvedere immediatamente appena mi fossi laureata; così feci e catalogai circa un migliaio di schede sulle chiese di Tivoli e di Guidonia Montecelio.
L’anno successivo alla mia laurea, nel 1990, fu bandito il concorso per le scuole ed io partecipai solo a quello di storia dell’arte per le superiori -tanto il lavoro ce l’avevo! – Studiai moltissimo, sapevo di poter contare anche questa volta solo sulle mie forze e non sulle vergognose raccomandazioni che allora infestavano. Anche questa volta conseguii un punteggio altissimo, vinsi il concorso e passai alle superiori. Intanto collaboravo già presso la rivista l’Aniene e presso gli Annali della Società Tiburtina di storia e d’arte, dove pubblicai i primi saggi scientifici. Successivamente ho collaborato con altri saggi sugli annali della Associazione Nomentana di Storia e Archeologia, per cui nel 1995 ebbi il riconoscimento del Premio Durantini. Cominciavo timidamente a collaborare e a partecipare sul territorio, ma i doveri di mamma di due bambini piccoli non mi permettevano di muovermi molto. Considerando che comunque non avevo mai smesso di studiare, portando avanti pubblicazioni varie, e conseguendo due master in Museologia e didattica museale e in Life long learning, decisi di iscrivermi alla facoltà di Filosofia, indirizzo Estetica, conseguendo la seconda Laurea, ancora con lode, relatore il prof. Giuseppe Di Giacomo, sulla teoria del pathos dalla tragedia greca ad Aby Warburg. Successivamente ho cominciato a collaborare presso l’Albatros, direttore Agostino Bagnato; ho conosciuto molti artisti di grande levatura artistica ed anche umana, da Placido Scandurra a Ennio Calabria, a Nunzio Bibbò, a Bertina Lopez, solo per citarne alcuni ed ho cominciato a curare mostre, a tamburo battente, in collaborazione con mio marito, l’architetto Giorgio La Bianca e con l’associazione “La cera di Dedalo”; ho prodotto più di duecento pubblicazioni di saggi scientifici, articoli, cataloghi, due monografie su Antoniazzo Romano e Antonio Achilli; ho continuato a curare gli artisti che intanto avevano cominciato a donarmi le loro opere, che attualmente sono collocate al museo Magni Mirisola di Velletri. Ho fondato il Gruppo GASM ed elaborato due Manifesti, ho insegnato storia dell’arte presso l’Università per adulti UPTER e altre associazioni; ho conseguito la specializzazione in Life coaching, la Triennale in Grafologia e relativi Master…
Tu Lucrezia, sei una Effettista, insieme a Francesca Romana Fragale e ai tanti altri artisti, accademici e personalità di grande cultura. Perché hai abbracciato questa corrente e cosa rappresenta per te?
Come spesso accade, tutto è nato da un’amicizia, un’intesa dell’anima e della mente tra me e Francesca Romana Fragale, una sorta di amore a prima vista, di riconoscimento di due anime simili e diverse dagli altri. Ho studiato e ho avuto modo di apprezzare il tipo di ricerca intrapreso prima dal padre di Francesca, Franco Fragale, e poi portato avanti da Francesca; mi ha coinvolta soprattutto la filosofia estetica che sostanzia la ricerca dell’Effettismo e il collegamento con le teorie di Jean Pierre Changeux, che anticipano di almeno cinquant’anni quelle che poi diventeranno le teorie sui neuroni specchio e sulle reazioni neurologiche del nostro cervello nel modo di percepire le immagini (a quest’ultima teoria mi sono avvicinata nel corso di neurologia seguito con il prof. Vincenzo Tarantino per la laurea in grafologia). Al momento sto studiando “Neuroscienze della bellezza” di Changeux e mi riprometto di sostanziare criticamente l’Effettismo, proprio partendo dalle teorie del grande scienziato, analizzando il modo di “produrre arte” da parte degli artisti membri dell’Effettismo: la mia intenzione, accennata in due citazioni da parte di Francesca Romana Fragale nel suo libro appena pubblicato sull’Effettismo, edito dalla Gangemi, è di dimostrare questo aspetto sostenuto nel Manifesto dell’Effettismo: si tratta di un gruppo di intellettuali abituati ad attivare competenze diverse, sia professionali o anche in forme di arte diverse dalla pittura, affinché ne scaturisca un contributo specifico ed inedito nella propria arte, che si carica di un quid di originalità, dovuto proprio all’influenza, inconscia, a transfert sinapsiche tra i due emisferi. Questo percorso critico è complesso e richiederà tempo; è per questo che il libro appena edito sull’Effettismo costituisce solo una prima forma di promozione e conoscenza, di cui con coraggio Francesca Romana Fragale si è fatta carico, di un Movimento di grande importanza, di cui gli addetti ai lavori non potranno non tenere conto da qui ai prossimi anni, piacciano o meno le teorie estetiche, morali e di ricerca che lo sostanziano. Per quello che mi riguarda intendo promuovere e studiare tale Movimento con l’approccio che ho descritto, individuandone in ciò la specificità e il contributo peculiare che esso potrà apportare alla riflessione sull’arte nei nostri tempi; insomma, a prescindere dalla eventuale condivisione da parte della critica d’arte dei principi stabiliti nel Manifesto, va riconosciuto che l’Effettismo è un fenomeno che non si può ignorare.
«… mi sono trovato più volte a riflettere sul concetto di bellezza, e mi sono accorto che potrei benissimo (…) ripetere in proposito quanto rispondeva Agostino alla domanda su cosa fosse il tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.”» (Umberto Eco, “La bellezza”, GEDI gruppo editoriale ed., 2021, pp. 5-6). Per te cos’ è la bellezza? Prova a definire la bellezza dal tuo punto di vista. Come si fa a riconoscere la bellezza secondo te?
A mio avviso la Bellezza è l’espressione armoniosa della diversità rispetto alla realtà. L’essere umano, a differenza degli animali, ha un’intelligenza, emotiva, che gli permette di riconoscere la bellezza, in particolare di un’opera d’arte, poiché si pone naturalmente, istintivamente ed empaticamente in sintonia con quanto prodotto dall’artista. Ovvero l’artista, a sua volta istintivamente, pateticamente e anche con l’uso di strumenti tecnico-operativi, “scarica” sull’opera d’arte un suo mondo interiore, che a sua volta ha recepito, recettore sensibilissimo, dall’umanità tutta. Questa totalità non razionale è una dimensione indicibile, che eccede il visibile offerto dalle forme e dai colori. È proprio in questo quid che consiste il dialogo del pathos, tra artista e riguardante, tra artista messaggero e portatore del pathos universale dell’umanità e individuo che quel pathos percepisce e di esso partecipa individualmente, pur avvertendo in tale percezione individuale di appartenere a quel tutto condiviso con l’artista e caricato sul “medium”, che è l’opera d’arte. Per vivere tutto questo non c’è bisogno di una cultura specifica, ma di strumenti di consapevolizzazione: sì perché le opere d’arte non “parlano da sole” e per innescare, con consapevolezza e non semplice “infatuamento”, i meccanismi di coinvolgimento nell’incontro con l’opera d’arte, per percepirne una meraviglia consapevole, è necessaria una mediazione critica, che possa non spiegare, non “ridurre” a spiegazione l’arte–che non può essere spiegata–, ma possa accompagnare alla compartecipazione di essa, avvertendone questa dimensione universale e individuale allo stesso tempo.
Quando parliamo di bellezza, siamo così sicuri che quello che noi adulti nati nel Novecento intendiamo per bellezza sia lo stesso, per esempio, per i ragazzi della Generazione Z o per i Millennial, per gli adolescenti nati nel Ventunesimo secolo? E se questi canoni non sono uguali tra loro, quando parliamo di bellezza che salverà il mondo, a quale bellezza ci riferiamo?
Innanzitutto è ora che la facciamo finita di associare necessariamente la bellezza con l’arte. Un’opera d’arte può anche essere volutamente brutta. Il compito dell’arte, e in questo consiste la sua dimensione salvifica, non è quello di offrire una bellezza che lasci incantati ed inani, che blocchi il pensiero; l’arte serve per riflettere, per farci fermare e soffermare; se un’opera può sembrare brutta, aggressiva, violenta, come può esserlo un’opera dell’Espressionismo astratto, oppure dadaista, o concettuale, avrà raggiunto l’obiettivo di “sconcertare”, confondere, disorientare il riguardante, che rimarrà fermo e perplesso—attivando così le sue sinapsi, e non piacevolmente incantato e meravigliato; l’arte non ha più il compito di compiacere, di consolare, di far evadere dalla noiosa routine, “appesa “ nel salotto, ma ha quello di far riflettere, pensare, al limite shockare se necessario: ma soprattutto l’artista ha il compito di incidere nel presente e nella realtà, non di riprodurla! In tal senso non la bellezza in sé, ma l’arte salverà il mondo. Tutto ciò non significa che l’arte non possa esprimere anche la bellezza, intesa come armonia e senso delle proporzioni, solo che non ne costituisce più l’obiettivo. Il mondo sarà salvato dalla consapevolizzazione dell’Uomo odierno, dalla capacità di solidarizzare nell’uguaglianza e agire nella Pace per il bene universale; se continuiamo a voler prevalere a livello individuale sia come persone, sia come nazioni, non ne usciamo; in tal senso la pandemia dovrebbe averci insegnato qualcosa. Questo per quanto riguarda il rapporto Arte-Bellezza. Se invece parliamo della bellezza in generale, nella nostra società la bellezza riconosciuta convenzionalmente è carica di contraddizioni, che portano spesso uomini e donne a sottoporsi all’azione del bisturi per plasmarsi in modo tale da rispondere ai “canoni estetici” da selfie – si chiama selfie – dismorfia; tali canoni sono determinati da sproporzioni innaturali, che fanno riferimento al corpo delle donne prevalentemente; una donna oggi deve avere un seno grande, ma una vita sottile, un naso piccolo, ma delle labbra grandi, orecchie piccole, ma occhi grandi, pancia piatta e sedere sporgente, gambe lunghe e quindi sproporzionate rispetto al busto: insomma un mostro, e per compensare le inevitabili “carenze” di madre natura, si fa ricorso sempre più alla chirurgia, pensando così di curare la dismorfofobia, che è invece una dipendenza. Siamo lontani millenni da quel canone policletèo che vedeva nel modulo testa, ripetuto otto volte, la bellezza ideale, che vedeva nei fianchi larghi di una donna e nella struttura ad anfora, la morfologia più adatta alla riproduzione e conservazione della specie: tanto i figli tra un po’ ce li fabbrichiamo direttamente in provetta.
Esiste oggi secondo te una disciplina che educa alla bellezza? La cosiddetta estetica della cultura dell’antica Grecia e della filosofia speculativa di fine Ottocento inizi Novecento?
Certamente, sono convinta che tale educazione alla bellezza, intesa come ricerca dell’armonia, sarebbe utilissima e dovrebbe essere offerta ai giovani, ed anche come lifelong learning, per tutte le forme di arte, non solo figurativa, ma anche musicale, della danza, del teatro, della cinematografia, fotografia, canto, poesia: ma la miopia politica italiana fa sì che tutte queste materie vengono insegnate poco o nulla in Italia!
«Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.» (Giovanni Falcone, “Cose di cosa nostra”, VII ed., Rizzoli libri spa, Milano, 2016, p. 25 | I edizione 1991). Tu a quale categoria di persone appartieni, volendo rimanere nelle parole di Giovanni Falcone? Sei una persona che punta un obiettivo e cerca in tutti i modi di raggiungerlo con determinazione e impegno, oppure pensi che conti molto il fato e la fortuna per avere successo nella vita e nelle cose che si fanno, al di là dei talenti posseduti e dell’impegno e della disciplina che mettiamo in quello che facciamo?
Io sono una persona che non si limita ad impegnarsi, come sarebbe giusto fare, ma affronto ogni impresa che decido di affrontare con una pervicacia paranoica, che mi porta sempre e comunque fino in fondo a quelli che spesso sono vicoli ciechi, sprecando energie che potrebbero essere direzionate diversamente. Eppure sono life coach! Il fatto è che nella vita il raggiungimento di un obiettivo che ci riguarda, non dipende sempre pienamente da noi, specialmente se si lavora in gruppo. Lavoro meglio da sola, programmo il più possibile, anticipo il più possibile, il detto “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi” è un mio must; sono molto severa con me stessa e questo rigore fa sì che quando lavoro in gruppo spesso mi sento dire: “Ma da adesso stai a pensare a questo, quando sarà il momento si vedrà!” Io, invece, cerco di immaginare, di prefigurare, di ipotizzare, ma questo a volte è un rimuginare velleitario, forse “perdo tempo” e sicuramente so perdere continuamente tutti “i treni” delle occasioni che passano. Sicuramente non so “mettere a frutto” le mie fatiche. So cosa mi piace, ma non so cosa voglio; sogno in un tempo indeterminato, vivo su un altro pianeta, ma navigo a vista e vivo all’ora: sono una nichilista iperattiva; sono sempre insoddisfatta e il poco e insignificante che tuttavia riesco ad ottenere, grazie a quella pervicacia di contadina memoria derivante da mia nonna (sudore, costanza, umiltà), è una continua autosmentita di tale nichilismo.
«Un giornalista è la vedetta sul ponte di comando della nave dello Stato. Prende nota delle vele di passaggio e di tutte le piccole presenze di qualche interesse che punteggiano l’orizzonte quando c’è bel tempo. Riferisce di naufraghi alla deriva che la nave può trarre in salvo. Scruta attraverso la nebbia e la burrasca per allertare sui pericoli incombenti. Non agisce in base al proprio reddito né ai profitti del proprietario. Resta al suo posto per vigilare sulla sicurezza e il benessere delle persone che confidano in lui.» (Joseph Pulitzer, “Sul giornalismo”, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2009). Cosa ti viene in mente leggendo queste parole di chi, negli Stati Uniti, alla fine dell’Ottocento, ha ideato e inventato il giornalismo moderno? Oggi, secondo te, i giornalisti fanno questo, gli interessi del popolo e dello stato, oppure hanno indossato le vesti di semplici servitori dei loro padroni-editori e delle lobby di potere che rappresentano le società per le quali lavorano? Qual è il tuo pensiero da donna di cultura e di saggista che diffonde sapere e conoscenza?
Penso che purtroppo l’elemento dirimente sia sempre il guadagno e che pur di campare molti giornalisti si sottopongano a condizionamenti. Per quello che mi riguarda il fatto che “tanto un lavoro ce l’ho”, mi ha messo nelle condizioni di fare liberamente quello che mi piaceva fare, proprio perché non avevo scopi di lucro e questo sin da giovanissima, quando cominciai a collaborare con la rivista l’Aniene a Tivoli. Tutte le mie pubblicazioni le faccio senza essere pagata e sono anche grata a chi mi accoglie, mi riconosce, mi apprezza e mi lascia libera di esprimere il mio pensiero sull’arte. Mi piacerebbe, però, poter pubblicare un libro senza dover pagare, cosa che mi sembra inevitabile per i meccanismi del mercato editoriale odierno italiano.
«I perdenti, come gli autodidatti, hanno sempre conoscenze più vaste dei vincenti, se vuoi vincere devi sapere una cosa sola e non perdere tempo a saperle tutte, il piacere dell’erudizione è riservato ai perdenti.» (Umberto Eco, “Numero Zero”, Bompiani ed., Milano, 2015). Cosa ne pensi di questa frase del grande maestro Umberto Eco? In generale e nel mondo dell’arte, della cultura, della letteratura contemporanea? Come secondo te va interpretata considerato che oggi le TV, i mass media, i giornali, i social sono popolati da “opinionisti-tuttologi” che si presentano come coloro che sanno “tutto di tutto” ma poi non sanno “niente di niente”, ma vengono subdolamente utilizzati per creare “opinione” nella gente comune e, se vogliamo, nel “popolo” che magari di alcuni argomenti e temi sa poco? Come mai secondo te oggi il mondo contemporaneo occidentale non si affida più a chi le cose le sa veramente, dal punto di vista professionale, accademico, scientifico, conoscitivo ed esperienziale, ma si affida e utilizza esclusivamente personaggi che giustamente Umberto Eco definisce “autodidatti” – e che io chiamo “tuttologi incompetenti” – ma che hanno assunto una posizione di visibilità predominante che certamente influenza perversamente il loro pubblico? Una posizione di predominio culturale all’insegna della tuttologia e per certi versi di una sorta di disonestà intellettuale che da questa prospettiva ha invaso il nostro Paese? Come ne esce l’Arte vera da tutto questo secondo te?
Secondo me è necessario risalire alle radici di una discrasia di fondo che condiziona l’educazione in primis e poi la gestione di un magma che tutto è, meno che cultura. Gli opinionisti tuttologi sono spesso proprio quei giornalisti di cui sopra. Una pletora di trasmissioni televisive di infimo livello culturale, insulse e spesso persino di dubbio gusto, incanta ed infatua, come un pifferaio magico, il popolo già avvinghiato alle chat e a Facebook. L’abuso dei social ha conseguenze neurologiche anche molto gravi, che è difficile valutare a lungo termine; si parla di amnesia digitale, accade cioè che, inconsciamente, pensando che tutto lo scibile sia a portata di mano e sempre disponibile, non abbiamo bisogno di immagazzinarlo nella mente che, di fatto, diventa vuota e ovattata da un tam tam di informazioni ben selezionate da poteri occulti, da cui siamo bombardati continuamente, non permettendoci più di pensare in modo autonomo, di riflettere, di valutare; in tal senso il corpo docente, che in Italia ha perso vertiginosamente riconoscimento e autorità, non è più riconosciuto come portatore di scibile, perché questo è stato trasferito nel mondo digitale, una sorta di mondo parallelo che ha ormai fagocitato quello reale. È ovvio che un popolo così rincretinito può essere facilmente incantato e plagiato.
Da ragazzo ho letto uno scritto di Oscar Wilde nel quale diceva cos’era l’arte secondo lui. Scrisse che l’arte è tale solo quando avviene l’incontro tra l’“oggetto” e la “persona”. Se non c’è quell’incontro, non esiste nemmeno l’arte. Poi qualche anno fa, in una mostra a Palermo alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Riso, ho ascoltato un’intervista di repertorio al grande Gino de Dominicis che sulle arti visive disse questo: «Le arti visive, la pittura, la scultura, l’architettura, sono linguaggi immobili, muti e materiali. Quindi il rapporto degli altri linguaggi con questo è difficile perché sono linguaggi molto diversi tra loro … L’arte visiva è vivente … l’oggetto d’arte visiva. Per cui paradossalmente non avrebbe bisogno neanche di essere visto. Mentre gli altri linguaggi devono essere visti, o sentiti, o ascoltati per esistere.» (Gino de Dominicis, intervista a Canale 5 del 1994-95). Cosa ne pensi in proposito? L’arte esiste se esiste l’incontro tra l’oggetto e la persona, come dice Oscar Wilde, oppure l’arte esiste indipendentemente dalla persona e dal suo incontro con l’oggetto, come dice de Dominicis per le arti visive? Qual è la tua prospettiva da questo punto di vista e sull’arte in generale?
Penso di aver già risposto a questa domanda a proposito del rapporto opera d’arte-artista-riguardante e in tal senso mi avvicino al pensiero di Oscar Wilde; direi che un’opera d’arte, che è costituita da elementi materiali, è in grado di essere attivata dallo sguardo di chi guarda, in un rapporto di reciprocità con l’artista, poiché è l’artista che vi ha già caricato quella dimensione patetica e partecipativa immateriale, che costituisce il quid eccedente dell’opera d’arte stessa. In tal senso l’opera d’arte è un medium, una tabula su cui il pathos, invisibile e indicibile, chiede di essere partecipato in una dimensione individuale e universale allo stesso tempo.
«Poi c’è l’equivoco tra creazione e creatività. L’artista è un creatore. E non è un creativo. Ci sono persone creative, simpaticissime anche, ma non è la stessa cosa. Comunque, questa cosa qui dei creativi e degli artisti, nasce nella fine egli anni Sessanta dove iniziano i galleristi ad essere creativi, poi arrivano i critici creativi, poi arrivano i direttori dei musei creativi… E quindi è una escalation che poi crea questi equivoci delle Biennali di Venezia che vengono fatte come se fosse un’opera del direttore. Lui si sente artista e fa la sua mostra a tema, invitando gli artisti a illustrare con le loro opere il suo tema, la sua problematica. Questo mi sembra pazzesco.» (Intervista a Canale 5 del 1994-95). Tu cosa ne pensi in proposito? Secondo te qual è la differenza tra essere un “artista creatore” – come dice de Dominicis – e un “artigiano replicante” che crede di essere un “artista”?
Ciò che trovo pazzesco è che in Italia, e solo in Italia, ci debbano essere sedicenti artisti, spesso autodidatti e tuttologi, che organizzano, che s’improvvisano critici d’arte e che dipingono anche! Ci sono delle competenze specifiche, che richiedono una preparazione specifica e solo questa specializzazione nei vari settori può dare risultati validi, seppur lavorando in modo coordinato; per fare un film ci deve essere un regista, uno sceneggiatore, un costumista e tante altre figure professionali che devono apportare ognuno un contributo specifico, che pure va coordinato e organizzato; così dovrebbe essere per l’organizzazione di una mostra. In Italia non ci sono albi professionali, né per gli artisti, né per gli storici dell’arte, né per i critici d’arte, né per i galleristi: tutti pensano di poter fare tutto, ci si arrabatta senza finanziamenti e tutele, senza una politica di riconoscimento delle eccellenze; tutti sono scontenti, tutti criticano tutti, tutti tacciano gli altri di protagonismo: gli artisti non si sentono riconosciuti dai critici d’arte, i critici d’arte sono quasi sempre ignorati dagli artisti, che pensano che le opere d’arte “parlano da sole”; non c’è un pubblico educato e sensibilizzato alla cultura dell’arte e del collezionismo, perché l’arte si studia pochissimo a scuola, perché l’azione di mediazione dei critici d’arte è riconosciuta solo quando la loro presenza diventa mediatica, come gli Sgarbi, i Daverio, i Bonito Oliva, e neanche si nominano presso i mass-media gli studiosi seri, che lavorano e producono senza alcun riconoscimento!
Per quanto riguarda la creazione, penso che solo Dio sia Creatore e che i risultati creativi degli artisti non siano frutto di “divinazione” innata; semmai possiamo parlare di “predisposizione” innata, che può trovare un riscontro persino neurologico (prevalenza dell’emisfero destro) e poi, grazie agli stimoli ambientali, all’incoraggiamento, alle condizioni logistiche ed emotive create dai familiari, grazie agli insegnamenti non solo tecnici dati dai docenti, con la curiosità, la passione e poi il lavoro, la fatica, la ricerca, la sperimentazione e anche il tempo, si possono raggiungere risultati straordinari (nel senso etimologico del termine “fuori dall’ordinario”), che per sintetizzare possiamo anche definire, semplicisticamente, geniali. In tal senso il genio è colui che, avendo superato le regole (ma solo dopo averle acquisite) può diventare lui stesso modello e regola per gli altri. E così con un processo a catena e ininterrotto coloro che verranno dopo di lui acquisiranno, per poi superare, quelle regole, per aprire altri orizzonti inediti, che solo la mente umana può esplorare. È in tal senso che non si può dire che l’arte sia morta, perché non lo è la ricerca incessante da parte dell’uomo di dimensioni che eccedono la realtà. Tali “eccedenze” sono dimensioni spirituali, poetiche, artistiche, simboliche; certamente non sono semplicemente razionali e logiche, anzi conservando un quid istintuale, istintivo, intuitivo, primordiale che, pur non più afferente alla sopravvivenza, potrà salvarci e “far” vivere.
«Un’altra cosa nell’arte visiva caratteristica è che non si rivolge in particolare a nessuno spettatore, non c’è una gerarchia di spettatori, ma sono tutti alla stessa distanza dall’opera. Non ci sono gli esperti. Un giudizio di un bambino vale quello di un cosiddetto esperto, per l’artista. Non c’è nessun particolare… Anche perché non esistono gli esperti d’arte. Gli unici esperti, veramente, sono gli artisti. Gli altri percepiscono l’arte, ma non possono essere degli esperti altrimenti la farebbero, la saprebbero fare.» (Gino de Dominicis, intervista a Canale 5 del 1994-95). Cosa ne pensi delle parole di de Dominicis? Cosa rappresenta per te, da questa prospettiva, l’arte visiva? Chi è in grado di capire l’arte e quali competenze e qualità deve possedere per essere definito un esperto d’arte?
Nel 2010, nel mio catalogo sul Gruppo GASM comprendente il relativo Primo Manifesto, usai i termini arsphobia e arsphilia, per indicare l’atteggiamento di disagio diffuso da parte delle persone nei confronti dell’arte. L’arte suscita emozioni forti, le forme e i colori attivano reazioni psico-neuro fisiologiche, che sono oggetto di studio da parte delle neuroscienze, basti pensare ai meccanismi dei neuroni specchio e persino alle modificazioni ormonali che si attivano nella percezione anche solo dei colori, fenomeno che ha dato impulso alle tante applicazioni della cromoterapia. Qualsiasi essere umano, in quanto tale, non può non essere coinvolto e talvolta sconvolto (basti pensare alla Sindrome di Stendhal), nella percezione di un’opera d’arte. L’approccio è quasi sempre sbagliato poiché ci si sforza di capire, mentre l’opera d’arte non chiede di essere capita, ma partecipata, perché non fa appello alla razionalità e alla logica, ma al pathos. Tale pathos è una dimensione individuale e universale, come ho già osservato sopra, cioè viene vissuta individualmente da ogni singola persona, ma è tale da farci sentire che tale dimensione è comune, e ci accomuna, a tutta l’umanità. Ecco, anche per questo motivo l’arte ci può salvare, perché ci avvia su percorsi di riconoscimento dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, in quanto tali. L’arsphobia deriva talvolta dalla delusione di “non capirci niente e non vederci niente”, dalla consapevolezza dell’impotenza a capire, e questo talvolta porta, addirittura, a disprezzare, specialmente difronte ad opere astratte o concettuali o informali, con atteggiamenti di difesa e la fatidica frase “e questo che roba è? Ma lo potevo fare pure io! (su questa frase consiglio di leggere il libro con lo stesso titolo di Francesco Bonami). Per passare da un atteggiamento di arsphobia ad uno di arsphilia, bisogna avere la capacità di lasciarsi coinvolgere dall’opera d’arte, e lasciarci anche penetrare negli angoli più riposti della nostra anima. Talvolta lo spettatore intuisce che l’opera d’arte ci restituisce il suo sguardo e questo può non piacere, ci fa paura, non vogliamo essere letti, non vogliamo che ci riconosciamo con noi stessi! In tal senso il godimento di un’opera d’arte va educato come riconoscimento e accoglienza del pathos di cui si carica l’opera d’arte (che era stata a sua volta “caricata” dall’artista sensore sensibilissimo). Ecco un altro aspetto salvifico derivante dall’incontro con l’arte: imparare a riconoscere e gestire il nostro pathos! Quanti eccessi della cronaca nera derivano dall’incapacità di riconoscere e gestire la rabbia ovvero un pathos che non si è scaricato in un’energia vitale positiva come quella derivante dall’arte? Ecco perché l’educazione all’arte sarebbe anche una preziosissima educazione al riconoscimento e alla gestione dell’emotività.
Gino de Dominicis, grandissimo genio artistico del secolo scorso, dei critici diceva … «…che hanno dei complessi di inferiorità rispetto agli artisti. Sono sempre invidiosi. È una cosa che è sempre successa. C’è poco da fare.» (Gino de Dominicis, intervista a Canale 5 del 1994-95). Da critico d’arte, cosa ne pensi di queste parole di de Dominicis? Cosa rappresentano oggi, secondo te, i critici d’arte e perché sono importanti nel mondo della cultura e delle arti in genere?
Penso che il ruolo dei critici d’arte, come mediatori culturali, sia fondamentale oggi, ancor più che in passato. Il misconoscimento in Italia degli artisti, non tutelati e sostenuti, a causa di una politica scellerata e miope, è lo stesso che trascura anche l’Educazione pubblica, costringendo a ricorrere ai privati e portando così ad una pericolosa discriminazione per censo, per l’accesso alla cultura. La prima forma di ignoranza è la diseducazione umanitaria, è il misconoscimento della dimensione umana dell’Uomo. Il livello culturale generale si sta abbassando vertiginosamente: tra poco i nostri giovani non sapranno più esprimersi né per iscritto, né oralmente; non sapranno cioè più comunicare e condividere i loro sentimenti e le loro emozioni con i simili, se non con superficiali e approssimativi emoji; sapranno solo seguire le onde dei social, gestite da poteri occulti che indirizzano e incasellano le nostre energie vitali verso l’impulsività, la superficialità, l’approssimazione, l’apparenza; il tutto afferente a menti sempre più semplici, prive di capacità di giudizio, di analisi critiche, di osservazione e di confronto; menti allettate come sciami, sull’onda di abili pifferai magici, manipolatori di psicosi collettive. Le emozioni saranno gestite dalla paura, dall’ansia, dall’incapacità di progettare e prefigurare il futuro, plagiate dalla ricerca della fama, dai like, dai falsi riconoscimenti, da esaltazioni, da incapacità di leggere in sé stessi e nell’altro da sé. L’arte apre a sentieri diversi da quelli indicati dai social, apre al pensiero divergente, alla pausa, alla riflessione, all’osservazione, al fermarsi e soffermarsi, ed è per questo che l’arte è salvifica e potrebbe innescare processi inversi a quelli in atto. Questo richiederebbe una collaborazione e solidarietà tra tutti gli attori del mondo dell’arte, ognuno per la propria competenza. L’idiosincrasia da parte di alcuni artisti, nei confronti dei critici d’arte, è dovuta al fatto che non sempre si sentono compresi, anzi riconosciuti: molto difficilmente l’artista, spesso sedicente tale, prende in considerazione l’ipotesi che tutto questo valore che si autoattribuisce potrebbe non esserci. Non vedo poi, come sostiene Gino de Dominicis, dove potrebbe trovare luogo l’invidia dei critici d’arte nei confronti degli artisti, nel momento in cui ad essi si riconosce tanto potere nel gestire il successo o l’insuccesso degli artisti stessi!
Quali sono secondo te le qualità, i talenti, le abilità che deve possedere un artista per essere definito tale? Chi è “Artista” oggi, nel Ventunesimo secolo dove la tecnologia ha preso il sopravvento e l’arte contemporanea spesso si rivela replicante di successi e di grandi artisti del passato? Oppure è pompata da pseudo critici d’arte ai quali interessa esclusivamente il business economico e non certamente l’Arte vera?
Riguardo alle qualità, ai talenti e alle abilità degli artisti ho già detto che queste si formano mediante lo studio, la sperimentazione, la ricerca, sulla base di predisposizioni innate. Credo che un corso di studi solido, a partire da scelte che assecondino le predisposizioni dei ragazzi sin dalle scuole superiori, per poi proseguire all’Accademia, sia imprescindibile. Non escludo una ricerca valida come autodidatta, ma penso che degli strumenti adeguati possano essere validamente trasmessi da dei docenti preparati, che non possono essere sostituiti da “tutorial” presi da internet. Successivamente, un iter di ricerca sperimentale lungo, può portare ad elaborare un linguaggio personale e originale, che può dare un contributo specifico alla cultura e all’arte. L’arte basa la sua creatività sull’originalità, cioè sulla possibilità di aprirci a letture divergenti, diverse, critiche, riflessivizzanti (mi si presti il neologismo), che ci portino ad interpretare la realtà in modo inedito; pertanto un’opera d’arte, se è tale, non può essere copia della realtà, ma sua trasformazione, reinterpretazione, rilettura, riscoperta, ricodificazione, e anche revisione. Ci possono essere riferimenti all’arte del passato, ma per offrircene una visione inedita, prima impensata; ci possono essere riferimenti alla realtà, ma non per riprodurla, bensì per rivelarla epifanicamente. Per fare ciò gli strumenti possono essere antichi, moderni, afferenti a tecnologie di tutti i tempi: si tratta di strumenti in funzione della riscoperta di realtà, che eccedono la realtà.
Non so cosa intendi con “Arte vera”, secondo me un’arte utile e moderna deve essere incentrata sul proprio Tempo, consapevole della Memoria di tutto il tempo umano e non solo, proiettata sul Futuro ed in grado di incidere, salvificamente, sull’Uomo odierno, mediante un’azione non politica, non risolutiva, ma problematizzante; se necessario provocatoria e shockante, pur di scuotere le coscienze dall’omologazione pericolosamente imperante data dai social e i mass media, anche per aiutare l’uomo ad essere consapevole dell’uso della tecnologia stessa.
«Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Cosa ne pensi tu in proposito? Cosa legge il lettore in uno scritto? Quello che ha nella testa “chi lo ha scritto” oppure quello che gli appartiene e che altrimenti non vedrebbe?
Penso di aver in parte risposto anche a questa domanda. Anche un’opera d’arte va letta, con l’atteggiamento partecipativo e proiettivo derivante dal pathos, che è lo stesso messo in atto dall’artista. Il medium arte è una sorta di “macchina per sentire il pathos” e si attiva come una carica a molla, noi la disinneschiamo, dopo che l’artista l’aveva avvolta: tutto ciò pone artista e riguardante in un rapporto di reciprocità e di condivisione individuale e universale, di un sentire comune patetico, che fa appello alla partecipazione.
Gli autori e i libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri e tre autori da leggere nei prossimi mesi dicendoci il motivo della tua scelta.
Direi che possono essere testi non troppo difficili, accessibili anche ai non addetti ai lavori, ma che “aprono lo sguardo” su orizzonti inediti e ci forniscono chiavi fondamentali nell’approccio alla fruizione dell’opera d’arte: Horst Bredekamp “Immagini che ci guardano” (Raffaello Cortina ed.); Daniel Arasse “Non si vede niente” (Einaudi); Jean Clair ”Nello sguardo di Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte” (Leonardo).
Ti andrebbe di consigliare ai nostri lettori tre film da vedere? E perché secondo te proprio questi?
Sono una incompetente cinefila accanita. I film che mi hanno inebriata, sconvolta, fatto riflettere, smossa nel profondo dell’anima, sono moltissimi; andrei per categorie, citerei i film che parlano della storia, specialmente quelli che ci aiutano a ricordare, e soprattutto riescono ad aprire sguardi inediti su quanto già è stato detto dalla Storia, per esempio sull’Olocausto (“Il bambino con il pigiama a righe”, tratto dal romanzo di John Boyne e ”La vita è bella” di Benigni”), e poi quelli fantastici e favolistici come “Le avventure di Pinocchio” (preferisco la versione di Comencini), che pure ci fanno riflettere, con una vena di malinconia.
Ci parli dei tuoi imminenti impegni culturali e artistici, dei tuoi lavori in corso di realizzazione? A cosa stai lavorando in questo momento? In cosa sei impegnata?
Collezione Lucrezia Rubini presso il Museo Magni-Mirisola -Velletri (Roma):
In questo momento sto curando una mostra sul libro d’artista dal titolo “Cosmi ex libris” con 15 libri d’artista, che sta proseguendo un percorso itinerante in attesa della terza edizione e che proseguirà nelle biblioteche di Roma, quando la pandemia lo consentirà. Per questa mostra ho elaborato un catalogo d’arte (che potete acquistare) in cui analizzo questo genere specifico di produzione artistica, poco conosciuta al grande pubblico.
Sto curando e incrementando la mia collezione presso il Museo Magni Mirisola di Velletri, che in questo momento ha superato il centinaio di opere di pittura e scultura, per creare una sezione dedicata per il Gruppo del Movimento dei Presenteisti (fondato nel 1982 da Alessandro Piccinini), che pure sto seguendo criticamente, con artisti di grande levatura, provenienti da tutto il mondo come Dorin Lior, Manuel Ruiz Ruiz, Manuel Clemente Ochoa, Shirley Carcassonne e molti altri. Seguo poi gli artisti dell’Effettismo, come detto, quelli dell’UCAI (Associazione Italiana Artisti Cattolici) Roma 2; seguo altri “singoli” artisti; sto collaborando su riviste periodiche di arte e cultura come l’Albatros, La Sponda, Interland, I quaderni di Arcipelago, I Quaderni della FJILKAM, su cui stanno per essere pubblicati saggi di critica d’arte. Nel Liceo artistico di Tivoli, dove insegno, sto curando con altri colleghi il progetto “Ricostruire il perduto”, sulla ricostruzione, da materiali d’archivio, della chiesa del Gesù distrutta nei bombardamenti del ’44.
Se per un momento dovessi pensare alle persone che ti hanno dato una mano, che ti hanno aiutata significativamente nella tua vita professionale e umana, soprattutto nei momenti di difficoltà e di insicurezza che avrai vissuto, che sono state determinanti per le tue scelte professionali e di vita portandoti a prendere quelle decisioni che ti hanno condotto dove sei oggi, a realizzare i tuoi sogni, a chi penseresti? Chi sono queste persone che ti senti di ringraziare pubblicamente in questa intervista, e perché proprio loro?
Le persone che mi hanno aiutata concretamente e affettivamente, che mi hanno sostenuta, incoraggiata, appoggiata, riconosciuta, sono moltissime; direi che la mia riconoscenza va, come “categorie” a tutti, proprio tutti gli insegnanti che mi hanno insegnato moltissimo, non solo in termini di conoscenze, dalla maestra Maria Ventura alle elementari, alla prof.ssa Rita Massa alle superiori, ai proff. Giuseppe Di Giacomo, Luigi Spezzaferro e Vincenzo Tarantino per le tre Lauree; come familiari, mia nonna paterna Lucrezia Todisco, contadina analfabeta che mi ha insegnato che le cose nella vita si ottengono con il sudore, la costanza, l’umiltà e la determinazione; mia madre, Vincenza Diana, che ha sempre creduto in me e nell’ottenimento di quella sua richiesta di “grazia”; mio marito, Giorgio La Bianca, che ha concretizzato molte mie velleità; poi tutti gli artisti e le artiste, in solidarietà e fratellanza, poiché hanno creduto in me e mi hanno accompagnata nella realizzazione di una miriade di mostre e nella creazione di una collezione ormai importante; poi persone, studiosi, scrittori e giornalisti, curatori e organizzatori, collezionisti e sponsor che si occupano di arte, con cui collaboro e condivido la sfida di promuovere l’arte; ancora, persone amiche, con cui mi sono confidata, sfogata, consigliata, appoggiata, nei momenti difficili e che hanno saputo ascoltarmi e dire quella parola giusta al momento giusto – “chiusa una porta si apre un portone” oppure “e che lasci adesso? Sei arrivata!”–, che mi ha fatto superare il rush finale. Infine devo essere grata a tutti coloro che non hanno creduto in me, che mi hanno ostacolato in ogni modo, che nel momento in cui ho espresso il desiderio e l’intenzione di intraprendere un percorso di studio, di ricerca, di lavoro “secondario” nell’arte, con scetticismo, con frasi del tipo: “ma che cerchi?” “A che ti serve quello che fai?” “Ma ti pagano?”—mi hanno messo nelle condizioni di capire che proprio quella era la strada giusta; hanno reso gli ostacoli dei punti di leva su cui appoggiarmi per farmi forza; hanno trasformato quelli, che sarebbero stati sogni velleitari, delle sfide cariche di un’energia da riscatto e compensazione, che mai sarebbe potuta emergere: ora gli ostacoli sono per me stimoli ed elementi di verifica preziosi, mentre le difficoltà sono gli strumenti per mettere in atto opportunità attraenti, sempre con pervicacia, con paraocchi convergenti, che mi portano in fondo ai vicoli ciechi e sulla strada più lunga per raggiungere gli obiettivi, perdendo tutti i treni!
Dove potranno seguirti i nostri lettori?
Sul mio sito www.lucreziarubini.it
Per concludere, cosa vuoi dire alle persone che leggeranno questa chiacchierata?
Che nella vita bisogna riconoscere e seguire sé stessi, ma lo si può fare solo attraverso l’incontro empatico (e non necessariamente il riconoscimento) con gli altri; che la strada giusta non è mai quella più breve e che i ciottoli sono punti di leva, che agevolano il cammino.
di Andrea Giostra
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