“La regina del caffè… su tela” | Intervista a Camilla Cuparo, drammaturga, regista teatrale, sceneggiatrice, pittrice
«L’Atto Creativo è una sorta di eiaculazione. Potente. Forse l’unico vero momento nel quale una donna si avvicina all’esternazione del “dare” maschile. L’Accoglienza, che spesso è solo un generoso dare, resta un dono quasi esclusivo del femminile. Poter possedere entrambe le sfumature sarebbe Divino. O diabolico…» (Camilla Cuparo)
Ciao Camilla e ben ritrovata. Dopo averti conosciuta come drammaturga, regista teatrale e sceneggiatrice, oggi ti presenti ai nostri lettori in altra veste artistica. Quando e come nasce la Camilla pittrice?
Ciao Andrea e grazie per questa nuova chiacchierata. Il ricordo più vecchio che ho è di una bambina di circa sei, sette anni che fece un Arlecchino ad una maestra di un’altra sezione. Me lo chiese perché si era accorta che sapevo disegnare e, quando glielo consegnai, mi regalò una saponetta profumata con delle note musicali intagliate sopra – avevo già iniziato a suonare il pianoforte – che conservo ancora con amore. Credo, però, di aver sempre disegnato o dipinto, come atto primordiale e poi indispensabile. Un’arma delle mie rivoluzioni.
Quale è stato il tuo percorso di studi?
In realtà, amando la scrittura, avrei voluto frequentare il liceo classico ma poi si presentò il problema dello studio. Dovendo frequentare anche il conservatorio di Musica. Mi consigliarono un altro indirizzo, dicendomi che non ce l’avrei fatta a conciliare le due cose e così scelsi il Liceo Artistico. Furono anni decisamente impegnativi perché si studiavano non solo le discipline pittoriche ma anche architettura. Fui fortunatissima perché i docenti erano bravissimi, tutti. Posso citarti il maestro Franco Flaccavento, grandissimo pittore, e il maestro Fernando Miglietta, architetto e critico d’arte. Ma ricordo anche l’insegnante di Storia dell’arte, Annafranca De Marco, una Dea d’altri tempi, bellissima, che amavo profondamente. Ogni volta che spiegava ti apriva la mente su mondi infiniti. Era una didatta vera, come ne esistono pochissime. In effetti, a prescindere dallo studio delle tecniche pittoriche, il liceo artistico fu una rivelazione proprio per le altre materie: con le tavole di anatomia artistica diventavo quasi maniacale nella perfezione di ossa e muscoli. In architettura ebbi modo di mettermi alla prova con una creatività più ragionata, precisa. Ho ancora l’ultimo lavoro che consegnai prima dell’esame di diploma: la progettazione di una scuola d’arte con teatro sospeso. Peccato che il mio estro dovette fare i conti con un commissario esterno che fece a pezzi il mio tratto e la mia fantasia e con una rappresentante che non seppe far valere i miei quattro anni di studio. Non disegnai più per un lungo periodo, dedicandomi solo alla recitazione.
Come nasce l’incontro tra il colore e il caffè?
Nel 1992. Ero una giovane studentessa di recitazione (con la Bracco) e di pianoforte (Conservatorio di Santa Cecilia) ma, una parte di me, sentiva il richiamo verso la pittura. Avevo un bozzetto del 1988, IL RIFLESSO, comprai una tela e iniziai a lavorarci con carboncino e oli e, un pomeriggio, poggiai una tazzina di caffè sulla tela, che era a terra, per sorseggiarlo mentre lavoravo. Per fortuna la tazzina cadde e il caffè si rovesciò sul dipinto. Dapprima mi feci prendere dal panico ma il giorno dopo, tra il caffè e gli oli era accaduto qualcosa di straordinario, che mi sorprese. Da quel giorno ho iniziato a sperimentare il caffè anche con gli acrilici e con le terre. Mi è capitato più volte che qualcuno mi abbia chiesto: tu sei quella che dipinge con il caffe? In effetti è diventato il mio colore.
Come si è evoluta, negli anni, la tua pittura?
A prescindere dall’uso dei vari materiali, direi che l’evoluzione è stata nell’uso che ho fatto dell’arte stessa, abbandonando – dopo circa dieci anni da quell’incidente col caffè – quell’idea di arte fine a sé stessa, autocompiacente, autocelebrativa, per lasciare spazio ai concetti, alle intenzioni. È capitato con l’inizio della mia parte drammaturga. Per una serie di accadimenti, iniziai ad indagare sul peccato e quindi mi immersi in uno studio pittorico teatrale che non è ancora terminato. Se osservo il primo dipinto sui Peccati, Accidia (2000) e l’ultimo, INVIDIA, che ancora è in divenire, le due costanti sono il tema e il caffè. Per il resto ogni tela sembra essere stata dipinta da menti differenti… perché non è la mano. La mano è un prolungamento del pensiero. Si dipinge con quell’idea che sta in gestazione per mesi, ti fa stare male, ti ruba il sonno e, quando meno te l’aspetti, ti chiede di essere partorita su tela come una drammaturgia che necessiti di uno spazio che ha quelle precise dimensioni, quella tangibilità. Che possa essere vissuta in quella versione. Un tempo ero staccata dai miei dipinti, li osservavo da fuori e dentro io non c’ero. Oggi non ricordo di averli mai dipinti materialmente ma so che sono diventata un tutt’uno con ogni quadro, in modo incontrollabile e selvaggio. Non li osservo più perché ci sono dentro.
Tra un dipinto e l’altro trascorrono anche anni?
Sì. Se non ho niente da dire resto in ascolto. Con la pittura come con la scrittura. Non è per pigrizia creativa. So che forzando l’atto creativo non tirerei fuori niente di veramente “discutibile”. Non voglio mettermi in gioco utilizzando il colore o altre materie. Voglio mettermi in gioco con la sintesi di un ragionamento che magari mi ha tormentata per mesi. Il colore e la materia diventano un mezzo.
Quanta casualità c’è sui tuoi dipinti?
Io ho un’idea precisa di quello che voglio ottenere, delle immagini. Quando tratto la tela con il caffè, chiaramente, il procedimento è affidato molto al caso. Il mio compito, stimolante, è di fare in modo che quella macchia che il caso ha creato per me diventi una opportunità. È un po’ come la vita, no?
Dove ti ha portato la tua pittura?
Tra il 2007 e il 2008 partecipai, come attrice/pittrice, ad uno spettacolo dal titolo GALLERIA, di Martella/D’Alatri. Ogni sera, in estemporanea, io dovevo dipingere un quadro. Ero spaventatissima proprio per il discorso della validità che potesse avere il risultato finale. Invece i dipinti ebbero successo. Due edizioni, due stili totalmente differenti, anche perché il 2008 fu l’anno della mia malattia e iniziai ad adoperare le garze come elemento necessario di quella trasformazione che stavo vivendo. Tre dipinti della prima edizione furono esposti alla galleria d’arte moderna La Tartaruga, in via Sistina a Roma. Nel 2015 partecipai alla collettiva LA MENTE ARTISTICA, a Roma e, sempre nel 2015, con il dipinto GLI ALTRI, al concorso internazionale d’Arte ART- HUG presso il Centro Culturale Egiziano, organizzato dall’associazione Artisticamente con l’Ambasciata della repubblica Araba d’Egitto. In quegli anni due dei miei dipinti divennero copertine per due libri della casa editrice Liberi Editori. L’ultimo dipinto, MEN&ME, due metri e sessanta per un metro e quarantuno, al quale ho lavorato tra il 2018 e il 2020, ha partecipato al Prize di Lussemburgo. In questo ultimo mese ho realizzato sei pannelli che diventeranno un grande murales all’ingresso del nuovo Teatro Sette Off, a Roma, voluto da Michele La Ginestra, dal titolo IMMORTALS’ SELFIE. Un lavoro molto diverso dai soliti, che mi ha riportato alla capacità di saper ritrarre i volti umani. Sai, col tempo, quando la pittura ti porta ad altro, pensi di non esserne più capace. È stata una bella sfida. Peccato non averli potuti realizzare col caffè.
Quali sono i tuoi progetti futuri da pittrice?
Sto iniziando un lungo lavoro, sempre con il caffè, al quale aggiungerò un elemento assolutamente nuovo, che mi attira non solo perché sono curiosa di vedere quale sia la reazione chimica con gli altri elementi, ma perché fa parte di questa mia nuova vita, che mi sta trasformando ancora e che trasformerà inevitabilmente il mio atto creativo. Certo, mi piacerebbe esporre, magari fare una personale ma… come ben sai, riuscire a trovare i canali giusti non è sempre fatto di talento ma, soprattutto in questa Arte, di soldi. Ed io, purtroppo e per fortuna, ho ancora un’idea romantica di pittori e mecenati.
di Andrea Giostra
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