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Paolo Agazzi, attore, scrittore e sceneggiatore | INTERVISTA

 

 

«È bello ciò che mi toglie il fiato, che mi zittisce, che mi fa piangere. Ero a Praga, in uno dei tanti musei che ho visitato, non ricordo quale. C’era in allestimento una mostra dedicata all’Art Nouveau e mi ritrovai di fronte al famosissimo Abbraccio di Gustav Klimt. Sono letteralmente svenuto. Davvero, mi sono dovuto stendere a terra. Ecco, il mio corpo non ha retto a tutta quella bellezza. La bellezza non ha bisogno di essere spiegata: la riconosci e basta.» (Paolo Agazzi)

Ciao Paolo, benvenuto e grazie per aver accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori? Chi è Paolo attore, scrittore e sceneggiatore?

Una persona che ha cominciato una nuova fase della propria vita dando finalmente spazio alla sua creatività. Non c’è alcuna separazione tra l’attore, lo scrittore, il ballerino e tutte quelle forme di creatività che sono cresciute in me negli anni. Ho fatto diverse esperienze da ragazzo, nella musica elettronica, performance varie, foto video, ma è stato il Teatro a darmi una vera forma e gli strumenti per esprimermi finalmente con contenuti più maturi. E certamente posso dire che quando recito o quando scrivo mi sento utile e felice.

 

…chi è invece Paolo nella sua quotidianità, al di fuori dal lavoro e dalla sua passione per la scrittura e la recitazione?

Ho sentito una nuova definizione che trovo mi descriva bene: multipotenziale. Sono sempre stato attratto da esperienze diverse. Mi sono applicato in campo tecnico, umanistico, sportivo, artigianale e artistico… Mi sono sempre buttato con entusiasmo, mettendomi alla prova con professionisti dai quali ho imparato e continuo ad imparare. Sono una persona curiosa ed entusiasta di ogni esperienza.

 

Qual è la tua formazione professionale, artistica e letteraria?

Mi sono diplomato in costruzioni aeronautiche nel 1987 e faccio parte di quella fortunata generazione di ragazzi che non faceva neppure in tempo ad iscriversi all’università perché le aziende si procuravano i nomi dei neodiplomati per assumerli. Ho fatto una breve esperienza in Aeronautica Militare e poi ho sempre lavorato nell’industria. La mia è una formazione umanistica da autodidatta, ho divorato libri per anni: dai gialli di Agata Christie, a Raymond Chandler, passando per Italo Calvino, Gianni Rodari, Umberto Eco, i fratelli Grimm, Antoine Saint-Exuperié, il ciclo arturiano di Chrétien de Troyes. E poi il percorso di consapevolezza con C. G. Jung, S. Freud, E. Fromm, HIllman, Campbell, Carlos Castaneda, Alejandro Yodorowsky. Ormai non riesco più ad elencarle le mie letture, davvero tante per la mia memoria. E poi grazie al teatro la scoperta di Enzo Siciliano, Tennesse Williams, Athur Miller, Yanmine Reeza, Carlo Goldoni… Quando snocciolo questi elenchi però, prevale sempre la consapevolezza dell’immensità di autori che ancora non conosco. Devo chiedere una proroga di vita.

 

Ci parli del tuo ultimo libro “Due uomini, un ombrello e una valigia”? Di cosa narra, senza ovviamente fare spoiler?

È certamente una fiaba per fanciulli troppo cresciuti. Non ero partito con l’idea di utilizzare questo tipo di racconto, ma fin dalle prime righe la sua forma è stata chiarissima e ho seguito il racconto lasciandolo scorrere. È la storia di un viaggio iniziatico di un uomo adulto e spento dalla sua routine quotidiana, che intraprende involontariamente un viaggio accompagnato da una “guida” giocosa e per nulla seriosa. L’uomo con la valigia si imbatte in persone e situazioni ridicole a volte psichedeliche, ma il gioco è un rituale molto serio che lo porterà ad una scoperta importantissima.

Chi sono i destinatari che hai immaginato mentre lo scrivervi e quale il messaggio che nelle tue intenzioni dovrebbe arrivare al lettore?

Il messaggio del libro è indirizzato a tutti noi adulti smarriti, soverchiati e oppressi dalla frenesia, dall’ansia da prestazione, schiacciati da schemi nati per l’industria e la finanza. Una organizzazione della vita scandita dall’orologio e misurata in termini di “produttività”. Ci meritiamo una rottura da questa tirannia della “performance”, dobbiamo smettere di avere per cominciare ad essere. È fondamentale per tutti noi ritrovare l’entusiasmo e la curiosità dell’infanzia. Dobbiamo ritrovare il contatto con la Meraviglia, perché senza stupore la vita non merita di essere vissuta.

 

Una domanda difficile Paolo: perché i nostri lettori dovrebbero comprare “Due uomini, un ombrello e una valigia”? Prova a incuriosirli perché vadano in libreria o nei portali online per acquistarlo.

Perché un quadro impressionista, dipinto con pennellate di colore apparentemente imprecise, se guardato alla giusta distanza ci cattura, risucchiandoci in una rappresentazione più sognante della realtà? Perché con la semplicità del suo linguaggio penetra in profondità dentro di noi. Perché un racconto scritto in modo lieve può avere una grande profondità. E oggi, in un’epoca in cui siamo percossi continuamente da onde violente di dati, abbiamo bisogno di leggere qualcosa che ci sollevi dal peso della comprensione e che sia in grado di raccontarci una fiaba semplice in superfice, ma formativa in profondità.

 

Nella tua attività letteraria hai pubblicato altri libri? Ci racconti quali sono, di cosa trattano e quale l’ispirazione che li ha generati?

No, questo è il primo libro che porto a termine. I tentativi precedenti sono stati solo esercizi. Ho dovuto vivere almeno quarant’anni per avere qualcosa di interessante da dire. Non è sufficiente “saper scrivere”. Padroneggiare la tua lingua è solo il mezzo; se non hai nulla di interessante da raccontare quello che scrivi, per quanto espresso in ottima prosa, non è rilevante.

 

C’è qualcuno che vuoi ringraziare che ti ha aiutato a realizzare questa opera letteraria? Se sì, chi sono queste persone e perché le ringrazi pubblicamente?

Devo ringraziare la mia professoressa di italiano delle superiori, che mi prese da parte un giorno e mi disse: “scrivere è come andare in bicicletta: se pedali male cadi per terra. Non esistono le brutte copie, Agazzi, lei deve scrivere bene al primo colpo”. Illuminante. E poi devo ringraziare il fato per aver portato la recitazione e il Teatro nella mia vita. Sai, è come la vita prima e dopo la scoperta dell’amore: non sarà più come prima. Il Teatro, dove io mi considero eternamente allievo, ha aumentato la mia percezione della realtà, dei sentimenti, della bellezza. Noi siamo bombardati dalla bellezza continuamente, ma solo gli artisti, gli attori imparano davvero a riconoscerla. E la recitazione si alimenta di testi, di letteratura e di immagini. Un attore fagocita testi, li digerisce e poi li rigurgita in nuovi testi. Se reciti impari a decodificare quello che vedi intorno a te con una profondità aumentata. E non credere, questo ha un prezzo. Io non riesco più vedere e basta: osservo, scruto ed elaboro continuamente tutto ciò che vedo intorno a me. Ecco, un attore comprende quale fonte inesauribile di ispirazione ci circonda in ogni istante del nostro quotidiano.

 

 

Tu sei anche un attore. Ci parli di questa parte artistica di te? Come nasce questa passione e quali le produzioni alle quali hai partecipato?

Il caso o il destino, o entrambi. Le cose si presentano nella tua vita esattamente quando devono. Ero andato a vedere uno spettacolo per il quale un mio amico aveva curato le scenografie, pensa, nulla di preciso. Mi divertii tantissimo e a fine spettacolo mi ritrovai a cena con la compagnia, a chiacchierare fino a notte fonda. La cosa si ripeté, divenne un’abitudine. Una sera, durante uno spettacolo, due attori scesero tra il pubblico per portare un po’ di scompiglio e arrivati di fronte alla mia poltrona cominciarono ad additarmi e a fare commenti: “che ne dici di questo? Ha una faccia interessante… Secondo me dovremmo portarlo in compagnia! – Hai ragione! Mi sembra guitto quanto basta!” E io mi sentii perfettamente a mio agio: perché non ci avevo pensato prima? Dopo pochi mesi, mi iscrissi al laboratorio teatrale della compagnia e da quel momento non ho più smesso di recitare e studiare. Ho recuperato il tempo perso a colpi di due spettacoli a stagione. I più importanti sono stati Il Dio del Massacro di Jasmine Reeza, Morte di Galezzo Ciao di Enzo Siciliano, Macbett di Eugéne Jonesco, Padri Nostri di Antonello Panero, Lettere di un amore americano, quattro atti unici di Tennesse Williams, Clara: pericolo memoria, di Athur Miller, e poi i miei Cinquanta, un’occasione come un’altra e Due uomini, un ombrello e una valigia.

 

Se casualmente ti ritrovassi in ascensore con Martin Scorsese, o con Giuseppe Tornatore, o con Quentin Tarantino, tu e uno di questi Maestri, da soli, e avessi un minuto di tempo per sfruttare quell’occasione incredibile e imprevedibile, presentarti e convincerlo a darti una parte nel suo prossimo film, cosa gli diresti di te quale artista della settima arte?

Non ho mai fatto cinema, ma ho recitato i tre cortometraggi e ho imparato che la recitazione per il cinema, per i video, è molto diversa da quella teatrale; punta molto sulla fotogenia e sulla presenza scenica. Quindi piuttosto che parlare cercherei di catturare la loro attenzione con la mia fisicità o lo sguardo, che mi dicono sia il mio tratto più caratteristico. E poi è vero che estroverso, ma in una situazione del genere di certo manterrei un profilo basso. Ecco: se devo immaginare un modo efficace per colpirli, tirerei fuori dalla borsa una maschera da Zanni della Commedia dell’Arte e li prenderei per il culo per tutto il viaggio in ascensore. In questo caso potrei ottenere due effetti opposti: un cazzotto o un contratto (sorride).

 

«Quando la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare. Ma diventa pericolosa quando, invece di risvegliarci alla vita individuale dello spirito, la lettura tende a sostituirsi ad essa, così che la verità non ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo con il progresso interiore del nostro pensiero e con lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, raccolto infra le pagine dei libri come un miele già preparato dagli altri e che noi non dobbiamo fare altro che attingere e degustare poi passivamente, in un perfetto riposo del corpo e dello spirito.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Qual è la riflessione che ti porta a fare questa frase di Marcel Proust sul mondo della lettura e sull’arte dello scrivere?

La condivido completamente. Per me tutto quello che viviamo, leggiamo, osserviamo è e deve essere un’occasione di crescita. Abbiamo il dovere di farci ispirare da quello che il mondo ci offre. Ogni forma artistica deve sì catturarci e trasportarci in un altro luogo, ma deve poi consentirci di tornare alla realtà con una maggiore apertura mentale e consapevolezza. I libri, i film, il teatro stesso non devono essere l’alternativa alla realtà. Possono essere un rifugio, ma temporaneo. Il quotidiano sarà sempre lì ad aspettarci al varco, sta a noi fare tesoro degli strumenti che la cultura e l’arte mettono a nostra disposizione. Questa è la mia piccola e grande ambizione come autore: creare delle occasioni di riflessione e di apertura mentale e perché no, spirituale.

«La lettura di buoni libri è una conversazione con i migliori uomini dei secoli passati che ne sono stati gli autori, anzi come una conversazione meditata, nella quale essi ci rivelano i loro pensieri migliori» (René Descartes in “Il discorso del metodo”, Leida, 1637). Qualche secolo dopo Marcel Proust dice invece che: «La lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano, Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998, p.30). Tu cosa ne pensi in proposito? Cos’è oggi leggere un libro? È davvero una conversazione con chi lo ha scritto, come dice Cartesio, oppure è “ricevere un pensiero nella solitudine” come dice Proust? Dicci il tuo pensiero…

Quando leggiamo entriamo nel pensiero dello scrittore attraverso il suo linguaggio. La sua prosa (o la sua poesia) racconta la struttura del suo pensiero. La scorrevolezza dello stile raffigura la fluidità del suo pensiero. È come la capacità di sintesi; non tutti ce l’abbiamo. Certo ci si può esercitare per migliorarla, ma ci vuole una mente particolare per raccontare argomenti complessi con poche parole. Ci sono libri che non mi piacciono da subito e la prima spiegazione è in genere “non mi piace lo stile di questo scrittore”, ma se insisto arrivo sempre alla conclusione che non mi piacciono le scelte (sacrosante) che ha fatto quell’autore: il soggetto, l’intreccio. Forse è come in amore: siamo attratti da chi ci assomiglia e nella lettura per me è lo stesso. Mi innamoro subito di chi ha un linguaggio simile al mio, che parla di cose che mi stanno a cuore e guarda caso anche la sua prosa mi piacerà. Il suo linguaggio è compatibile con i miei schemi mentali e io mi sincronizzo con i suoi pensieri. Per cui, anche se si tratta di un soliloquio la mia affinità con lo scrittore rende la lettura un dialogo molto intimo tra noi due.

 

«Tutti i film che ho realizzato sono partiti dalla lettura di un libro. I libri che ho trasformato in film avevano quasi sempre un aspetto che a una prima lettura mi portava a domandarmi: “È una storia fantastica; ma se ne potrà fare un film?” Ho sempre dei sospetti quando un libro sembra prestarsi troppo bene alla trasposizione cinematografica. Di solito significa che è troppo simile ad altre storie già raccontate e la mente salta troppo presto alle conclusioni, capendo subito come lo si potrebbe trasformare in film. La cosa più difficile per me è trovare la storia. È molto più difficile che trovare i finanziamenti, scrivere il copione, girare il film, montarlo e così via. Mi ci sono voluti cinque anni per ciascuno degli ultimi tre film perché è difficilissimo trovare qualcosa che secondo me valga la pena di realizzare. (…) Le buone storie adatte a essere trasformate in un film sono talmente rare che l’argomento è secondario. Mi sono semplicemente messo a leggere di tutto. Quando cerco una storia leggo per una media di cinque ore al giorno, basandomi sulle segnalazioni delle riviste e anche su lettura casuali.» (tratto da “Candidamente Kubrick”, di Gene Siskel, pubblicato sul Chicago Tribune, 21 giugno 1987). La maggior parte degli scrittori ha un grande sogno: quello che un loro libro, un loro romanzo diventi un film realizzato da un grande regista. Tu a questo proposito cosa pensi delle parole di Kubrick sulle storie raccontate nei libri per farne dei film? Cosa serve secondo te perché un romanzo possa catturare l’interesse di un grande regista cinematografico?

È sempre più difficile vedere qualcosa di veramente nuovo ormai. Chiunque abbia studiato anche solo la mitologia dell’Antica Grecia sa bene che possiamo ricondurre praticamente ogni storia ad archetipi e strutture mitologiche ben consolidate e presenti in tutte le culture del mondo. Gli stessi miti, le stesse rappresentazioni delle vicende umane e divine sono state raccontate con similitudini incredibili anche tra civiltà appartenenti a continenti diversi che non sono mai state in contatto tra loro. Io non sono un autore esperto, ma sono un buon lettore e spettatore e posso dire che con me funziona il racconto mitologico, sempre. Quando mi imbatto in una storia “nuova” che mi aggancia subito, se mi distacco dalle emozioni che provo e l’analizzo ci trovo sempre gli stessi archetipi e lo stesso percorso: il viaggio dell’Eroe. Il percorso iniziatico, la morte e la rinascita. Per cui per rispondere alla tua domanda, penso che ad attirare un regista sia una declinazione originale, una ambientazione mai vista, una prospettiva insolita, o magari un linguaggio moderno, futuribile… Ma a un regista come Kubrik non gliela daresti a bere neanche per un secondo; saprebbe riconoscere il mito sul quale ti sei appoggiato meglio di te che hai scritto il libro.

 

 

«Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.» (Giovanni Falcone, “Cose di cosa nostra”, VII ed., Rizzoli libri spa, Milano, 2016, p. 25 | I edizione 1991). Tu a quale categoria di persone appartieni, volendo rimanere nelle parole di Giovanni Falcone? Sei una persona che punta un obiettivo e cerca in tutti i modi di raggiungerlo con determinazione e impegno, oppure pensi che conti molto il fato e la fortuna per avere successo nella vita e nelle cose che si fanno, al di là dei talenti posseduti e dell’impegno che mettiamo in quello che facciamo?

Anche questa è una domanda complessa per la quale riceverai una risposta complicata. Io sono molteplice e così la mia attitudine verso gli ostacoli e gli obbiettivi. Sono capace di una enorme determinazione quando sento quella tensione emotiva, quell’urgenza creativa che è in grado di togliermi il sonno. Quando ho un’idea non ho scelta: devo realizzarla e portarla a termine. Poi ho un enorme senso del dovere, anche retaggio del mio passato legato alla dimensione marziale che ho vissuto con i militari… Per cui un obbiettivo professionale lo perseguo con determinazione fino a raggiungerlo. Ma se ho un impegno che non mi convince rallento, la mia azione diventa debole e se non insisto fallisco certamente. Per questo credo nel fato e anche nella volontà: non sono mutualmente esclusivi. Sono entrambi necessari per il raggiungimento dell’obbiettivo. Ecco: se hai un talento hai il dovere di coltivarlo con il massimo impegno per essere pronto a cogliere l’occasione che il fato mi presenterà quando sarà il momento. Ci vogliono entrambi: impegno e fortuna.

«…anche l’amore era fra le esperienze mistiche e pericolose, perché toglie l’uomo dalle braccia della ragione e lo lascia letteralmente sospeso a mezz’aria sopra un abisso senza fondo.» (Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, Volume primo, p. 28, Einaudi ed., 1996, Torino). Cosa pensi di questa frase di Robert Musil? Cos’è l’amore per te e come secondo te è vissuto oggi l’amore nella nostra società contemporanea?

Ma potrebbe mai esistere la vita senza l’Amore? E l’Arte? Io non credo assolutamente. L’Amore è il motore emotivo che rende la vita degna di essere vissuta, che ci eleva ad esseri pensanti anche quando ci porta alla pazzia. Se penso alle cose davvero rilevanti che ho fatto in questo mezzo secolo di vita sono tutte state motivate dall’Amore. Tutto ciò che ho visto di bello, i viaggi indimenticabili, le avventure. Tutto ciò che ho creato: musica, testi, immagini, mia figlia. Non esisterebbe nulla di tutto questo se non fossi stato innamorato. E bada bene, non ho detto felice, ma innamorato. E devo a malincuore ammettere che le cose che ritengo davvero valide le ho scritte proprio nei momenti di profondo malessere sentimentale. Gli amori non corrisposti e le rotture sono poi fonte di grandissima ispirazione. Fanno dannatamente male, ma come autore mi elevano ad un livello al quale nei momenti di serenità neppure mi avvicino. No, con la ragione non si accede all’emozione, all’abisso dell’anima. Solo l’Amore può mettere in gioco le forze telluriche della creatività. Con la ragione puoi fare un progetto, scrivere un saggio… Ma il lettore, lo spettatore lo conquisti con l’Amore.

 

«… mi sono trovato più volte a riflettere sul concetto di bellezza, e mi sono accorto che potrei benissimo (…) ripetere in proposito quanto rispondeva Agostino alla domanda su cosa fosse il tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.”» (Umberto Eco, “La bellezza”, GEDI gruppo editoriale ed., 2021, pp. 5-6). Per te cos’ è la bellezza? Prova a definire la bellezza dal tuo punto di vista. Come si fa a riconoscere la bellezza secondo te?

Ci ho riflettuto tante volte sai? Ho letto libri su questo argomento e il rischio di dare una riposta banale a questa domanda è davvero alto. Assodato che la bellezza è un concetto davvero relativo e soggettivo ti dirò cosa succede a me quando incontro qualcosa di bello: mi viene la pelle d’oca. È bello ciò che mi toglie il fiato, che mi zittisce, che mi fa piangere. Ero a Praga, in uno dei tanti musei che ho visitato, non ricordo quale. C’era in allestimento una mostra dedicata all’Art Nouveau e mi ritrovai di fronte al famosissimo Abbraccio di Gustav Klimt. Sono letteralmente svenuto. Davvero, mi sono dovuto stendere a terra. Ecco, il mio corpo non ha retto a tutta quella bellezza. La bellezza non ha bisogno di essere spiegata: la riconosci e basta. Consiglio “Storia della Bellezza” di Umberto Eco.

 

Quando parliamo di bellezza, siamo così sicuri che quello che noi nati nel Novecento intendiamo per bellezza sia lo stesso, per esempio, per i ragazzi della Generazione Z o per i Millennial, per gli adolescenti nati nel Ventunesimo secolo? E se questi canoni non sono uguali tra loro, quando parliamo di bellezza che salverà il mondo, a quale bellezza ci riferiamo?

No, non potremo mai avere la stessa percezione della bellezza delle generazioni passate o future. Per fortuna, aggiungo. Ma se la definizione di “bellezza classica” persiste a prescindere del passare del tempo un motivo c’è. Certe forme d’Arte, intese proprio come “rappresentazione” grafica o sonora sono trasversali alla linea del tempo o forse dovremmo dire sinusoidali perché l’attraversano il tempo intersecandolo in punti precisi che determinano il massimo splendore di quel canone, o la sua rinascita. Ma anche nei periodi di maggiore distanza dall’apice del riconoscimento popolare quella rappresentazione della bellezza rimane, mentre il resto passa. Io non smetterò mai di stupirmi e di rallegrarmi nell’incontrare ragazzi giovanissimi che amano la cultura classica, che studiano uno strumento antico con ardore o che recitano con passione testi di autori di secoli fa. Penso che certi canoni di bellezza definiti “classici”, risiedano dentro di noi a prescindere dalla nostra volontà. Sono parte dell’inconscio collettivo di cui parlava C.G. Jung. Ed è giusto che sia così.

Poi io non sono un conservatore, anzi: pensa che ho anche fatto “musica industriale” percuotendo rottami metallici. Ma gli standard classici sono un dato di fatto e meno male, perché un faro nella tempesta è sempre necessario.

 

 

Chi sono i tuoi autori preferiti, gli scrittori, i saggisti che hai amato leggere e che leggi ancora oggi?

I classici delle fiabe hanno fertilizzato la mia infanzia: i fratelli Grimm, Christian Andersen, Charles Perrault e poi Gianni Rodari, Italo Calvino. L’adolescenza invece è stata accompagnata dalle avventure con Jules Verne, Emilio Salgari, Jack London e dai gialli con Agata Christie, Arthur Conan Doyle e Raymond Chandler. Poi tutto il decadentismo Oscar Wilde, Baudelaire, Verlaine, ricordo benissimo l’importanza che ebbero per me “Controcorrente” di J.K Huysmans e “L’educazione Sentimentale” di Gustave Flaubert, chiaramente l’incontro con l’Estetismo poi mi condusse fino al Marchese de Sade, ma chi non ci è passato? Fu molto formativo Hugo Pratt: quale giovane uomo non ha mai sognato di vestire i panni di Corto Maltese? Poi c’è stato un blocco nelle mie letture umanistiche, ero troppo preso dal continuo studio per la mia professione. La tecnica mi aveva fagocitato e la sera crollavo dopo un paio di pagine. Poi la grande crisi dei 40 anni e la saggistica ha preso il sopravvento: di nuovo la filosofia tramite Frédéric Lenoir, Pierre Hadot, Luc Ferry, la psicologia di nuovo in compagnia di Jung, Freud, Fromm, Erich Neumann, Sheldon B. Kopp e un po’ di fisica quantistica con Fritjof Capra, i percorsi sciamanici con Castaneda, Jodorowsky, Sam Keen, Dan Millman passando persino da Bruce Lee… Questi elenchi però mi fanno sentire al contempo vecchio e ignorante. Forse è per questo che sto tornando alle letture fantastiche degli autori a cavallo tra il 1800 e 1900: H.G. Wells, Bram Stocker, Mary Shelley, E.A. Poe e R.H. Stevenson: oggi sto rileggendo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde per l’ennesima volta. Ho appena riletto Il piccolo principe e mi appresto a leggere di nuovo Il ritratto di Dorian Grey.

 

I libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri da leggere nei prossimi mesi dicendoci il motivo del tuo consiglio.

Questa è difficile: proviamo di getto. “L’educazione sentimentale” di Flaubert per leggere nero su bianco quanto un uomo possa annullarsi per amore di una donna e non farne tesoro: tanto non c’è scampo, capiterà anche a voi. Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry per aprire la mente e soprattutto i proprio cuore. E La prima sorsata di birra di Philippe Delerm, perché la felicità risiede nella semplicità delle piccole cose.

 

E tre film da vedere assolutamente? Quali e perché proprio questi?

Di nuovo di getto se no, ci stiamo dei giorni: “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders, per comprendere che il divino non riede solo in cielo. “Dracula” di Francis Ford Coppola, perché il vero Amore attraversa gli oceani del tempo. “The Rocky Horror Picture Show”, perché non bisogna sognare di esserlo, ma bisogna esserlo.

Quali sono i tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti che vuoi condividere con i nostri lettori?

La quarantena ha congelato il mio terzo copione “Ballata per Uomini Soli” che avrebbe dovuto andare in scena nell’aprile 2019, poi riprogrammato a novembre 2020 e di nuovo saltato. È un noir adatto ad un pubblico decisamente adulto. Ora stiamo lavorando con il cast per dargli una nuova forma come corto o addirittura lungo metraggio, ma sempre in attesa di portarlo in teatro. Ho due soggetti in testa e anche in parte in bozza “Due Cuori e una penna” che credo sarà una commedia dove vorrei parlare d’Amore (sono decisamente ambizioso) e “Odisseus” che sarà il mio monologo per i 55 anni (spero di scriverlo in tempo), dove darò voce ad Ulisse e gli farò raccontare il suo punto di vista, le sue emozioni, le sue crisi e vedrai che ci racconterà cose assolutamente attuali. E poi, se mi conosco, vedrai che da questi due soggetti ci scapperà un nuovo libro. Poi voglio aggiungere che sono felice che le mie attività personali di autore e attore si intersechino e che possano umilmente dare un contributo alla nostra neonata Compagnia Teatrale “Miranda sulla Fune”. Sono orgoglioso di essere salito a bordo di questo progetto e di condividere una nuova avventura con un gruppo di attori davvero bravi, talentuosi ed eterogenei. La nostra è una continua ricerca e la creatività del gruppo è davvero notevole. Abbiamo poi la grande fortuna di avere la guida di un giovane attore e regista visionario, dotato di una competenza granitica e di una sana follia visionaria. Si chiama Angelo Tronca e ci sta spingendo in territori davvero esaltanti. Per il nostro esordio stiamo preparando la commedia forse più bella di sempre: “La Locandiera” di Carlo Goldoni. Sarà da non perdere.

 

Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa intervista?

Prima di tutto ringraziandoti Andrea per le domande davvero stimolanti che mi hanno fatto mettere a fuoco nuove argomentazioni e riflessioni. Questo è quello che intendevo prima parlando delle occasioni che si presentano nella vita. E voglio ringraziare chi ha letto questa intervista fino in fondo premiandoci con la sua attenzione: di questi tempi non è affatto scontato riuscire ad interessare un lettore per più dei 140 caratteri di un “tweet”. Voglio salutare con il messaggio portante del mio libro: riscoprite la vostra capacità di meravigliarvi di fronte alla bellezza che ci circonda. Andate alla scoperta delle piccole cose. Senza la Meraviglia non siamo che criceti che corrono dentro la loro ruota senza andare da nessuna parte.

di Andrea Giostra

 

 

Alcuni Link

Paolo Agazzi
 
Il libro:
Paolo Agazzi, “Due uomini, un ombrello e una valigia”, Bookabook ed., Milano, 2021
 
Andrea Giostra

 

 

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