“Vita di Pi” (2012), di Ang Lee
Straordinaria e spettacolare metafora della vita dell’uomo, delle emozioni devastanti e dei moti d’animo ri-nascenti che l’attraversano dalla nascita alla morte terrena. Sono la sintesi e la semplicità descrittiva gli elementi che fanno del film di Ang Lee un’opera d’arte che sa colpire al cuore lo spettatore in modo indolore e subliminale. Salvo poi, quando alla fine i titoli cominciano a scorrere sul grande schermo, costringerlo a riflettere sul significato del film, a renderlo consapevole, lentamente, che il messaggio è arrivato e che questo messaggio è silenziosamente fragoroso all’interno della sua “anima”, della sua sensibilità di essere umano. I piani di lettura di Lee sono molteplici e si succedono repentini intrecciandosi ripetutamente, quasi a voler confondere lo spettatore, obbligandolo a cambiare celermente punto di vista, prospettiva, griglia di lettura, matrice interpretativa. Gli “elementi primari” con i quali Lee ha creato questa sua “meravigliosa opera” – nel senso che per lunghi tratti il film rappresenta una “realtà filmica” meravigliosamente (wondrous things!) onirica e ipnotizzante – sono tanti, ma rimangono incontaminati e sempre chiaramente riconoscibili in ogni momento del film: allegorici e metafisici, politici e religiosi, etici e morali, ludici ed esistenziali, sentimentali e razionali, passionali e cinici, opportunistici e altruistici, darwiniani e cristiano/musulmano/induisti. Già questo risultato riuscirebbe ad ergere il film come uno dei migliori dell’anno del Signore 2012.
Ma a Lee questo già straordinario risultato non è bastato!
Dopo aver costruito una preliminare cornice narrativa apparentemente scontata, Lee fa entrare in scena il naufrago protagonista del film, il giovanissimo e bravissimo Suraj Sharma, che, provando a rinnegare la dolorosissima tragedia del naufragio subìto, e non potendo cancellare le improvvise e laceranti ferite lasciate dal dolore inflittogli dall’improvvisa perdita dei suoi familiari, trasforma lentamente il suo terribile pathos interiore nella fantastica avventura evolutiva e spirituale dell’uomo di ogni tempo.
Tra imprevedibili peripezie, inaspettati e pericolosi attacchi mortali, minacciosi uragani e tempeste oceaniche, in Sharma prendono irruentemente e prepotentemente il sopravvento, per condurlo alla salvezza di giovane naufrago, l’ancòra ignorato istinto di sopravvivenza, la fiducia sempre più vigorosa nel proprio talento, la forza umana che si sprigiona dall’immenso amore ricevuto dai suoi cari oramai persi per sempre. Sono la speranza e la fede in Dio i porti sicuri nei quali ci dobbiamo rifugiare nei “momenti di tempesta”. È questa la rotta di vita e l’àncora di salvezza terrena, prima ancora che divina, che magnificamente con un film fantastico traccia Lee: solo la fede e la speranza possono farci superare i momenti di grande dolore, i momenti in cui tristi ci sentiamo soli al mondo, i momenti in cui abbiamo irrimediabilmente perso ogni cosa. Solo la fede e la speranza possono darci la giusta spinta vitale, dopo le “terribili sciagure” subìte, per gustare con passione ed entusiasmo la nostra vita, e dare un senso compiuto alla nostra esistenza terrena.
Post Scriptum.
È interessante conoscere la genesi del romanzo e della storia narrata nel film di Lee.
Intorno agli anni novanta lo scrittore e viaggiatore canadese Yann Martel, leggendo una recensione di John Updike sul “New York Times Review of Books”, viene a conoscenza dell’ultimo romanzo dello scrittore brasiliano Moacyr Scliar, che narra la storia di una famiglia ebrea che nel 1933 gestisce uno zoo a Berlino. A causa della crisi economica di quegli anni, la famiglia decide di emigrare in Brasile portando con sé tutti gli animali dello zoo, trasportandoli su una grande nave mercantile. Durante il viaggio, però, la nave affonda. Gli unici superstiti, che si ritrovano su una scialuppa in mezzo all’oceano, sono un ebreo e una pantera nera. È chiara l’allegoria della storia di Scliar: la pantera nera rappresenta il temuto regime nazista.
Cinque anni dopo, durante il suo secondo viaggio in India, mentre ammira la splendida vista sulla pianura di Bombay dalla silenziosa e isolata stazione arroccata sulla collina di Matheran, Martel ha l’ispirazione. Prendendo spunto dalla premessa della storia di Scliar, nella sua mente improvvisamente esplodono le idee per quello che già allora immagina il romanzo della sua vita. Martel ha due protagonisti principali: un ragazzo indiano e una tigre del Bengala che per 277 giorni dovranno condividere una scialuppa di salvataggio in mezzo all’oceano. Tre le caratteristiche umane che vuole impersonare nella sua storia: la iena (la vigliaccheria), l’orango tango (l’istinto materno), la zebra (l’esoterismo), che si ritrovano, assieme a Pi e a Richard Parker, sulla scialuppa.
Richard Parker è il nome che Martel dà alla “sua” tigre del Bengala. Richard Parker è il nome di diversi naufraghi di epoca vittoriana, alcuni realmente esistiti, cannibalizzati o uccisi in mare dai loro stessi compagni di sventura. Il più noto è quello raccontato nel 1838 nell’unico romanzo di Edgard Allan Poe dal titolo “the Adventures of Arthur Gordon Pym”. Altri Richard Parker naufraghi cannibalizzati o impiccati in mare, si succedono negli anni: 1797, Richard Parker marinaio, capo rivolta di uno dei due grandi ammutinamenti della Royal Navy vittoriana passati alla storia come “Spithead and Nore mutinies”; 1846, Richard Parker apprendista, naufrago del “Francis Spaight”; 1884, Richard Parker mozzo, naufrago della “Mignonette”.
Il romanzo di Martel viene pubblicato nel 2002. Nello stesso anno vince il prestigiosissimo “Man Booker Prize for Fictioon”, istituito nel 1968 da un’azienda privata britannica con la sponsorizzazione della McConnell, e assegnato al miglior romanzo scritto in inglese da un cittadino del Commonwealth delle nazioni, dell’Irlanda o dello Zimbabwe. Dal 2002 la gestione e la titolarità del premio è della “Booker Prize Foundation”.
Recensione di Andrea Giostra
ANDREA GIOSTRA.
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